Imprese

Iscrizione alla white list, il termine per il consenso/rigetto non scade

La scadenza dopo 90 giorni dalla richiesta non è di tipo perentorio, chiarisce il Consiglio di Stato

di Massimo Frontera

Il termine per il rigetto della domanda dell'impresa di iscrizione alla white list da parte del Prefetto non costituiscono un termine perentorio bensì ordinatorio, senza alcuna violazione del giusto procedimento. Il che significa che il provvedimento con il quale il Prefetto può ammettere o meno l'impresa emesso oltre il termine resta pienamente legittimo perché l'«autorità procedente» non ha «consumato» il suo potere. Inoltre, il termine - appunto ordinatorio - non è assimilabile al termine per la conclusione di un procedimento sanzionatorio, «non avendo la misura interdittiva, né il diniego di iscrizione in White list, natura giuridica di "sanzione" in senso tecnico e neppure "di fatto", trattandosi piuttosto dell'esito di un accertamento del possesso da parte dell'imprenditore che aspira a contrattare con la pubblica amministrazione del fondamentale requisito di impermeabilità al pericolo di ingerenze mafiose». Il soggetto interessato può pertanto attivarsi «avverso l'inerzia amministrativa attraverso gli strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, senza che ciò possa considerarsi equivalente all'imposizione di un "onere" ulteriore in capo al richiedente».

Sì è espressa in questi termini la Terza sezione del Consiglio di Stato - sentenza n.4061/2021 del 26 maggio - confermando la decisione del Tar Campania (Caserta) che aveva respinto tutti i motivi del ricorso contro il rigetto di iscrizione alla white list deciso dal Prefetto nei confronti di un'impresa. Impresa di cui - va sottolineato - la pronuncia di Palazzo Spada ripercorre il pesantissimo quadro indiziario ricostruito da ampie indagini da parte delle forze dell'ordine (oltre che da dichiarazioni di un collaboratore di giustizia) che indicano oltre ogni dubbio il condizionamento dell'impresa da parte di noti esponenti della criminalità organizzata.

La sentenza di Palazzo Spada conferma tutti i pilastri su cui poggia lo strumento dell'interdittiva, come pure dell'iscrizione o meno alla white list, le cui disposizioni - precisano i giudici rigettando uno dei motivi di appello - «formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia e condividono gli stessi principi alla base dell'emissione dell'interdittiva». Nel caso della procedura relativa all'iscrizione alla white list, i giudici tracciano un cordone di protezione nei confronti della decisione del prefetto, ribadendo alcuni principi guida. Per esempio il fatto che l'eventuale diniego può anche essere giustificato «da indizi gravi precisi e concordanti, anche risalenti nel tempo, quali quelli riscontrati nella fattispecie, qualora non siano rinvenuti elementi nuovi, idonei a dimostrare un effettivo cambiamento e il venir meno del pericolo di infiltrazione mafiosa».

Per venire poi al termine di 90 giorni indicato all'art. 3 del Dpcm 18 aprile 2013, si rigetta l'analogia tra le norme anticorruzione e le norme sul procedimento amministrativo: «in assenza di una norma che qualifichi espressamente come perentorio il termine di conclusione del procedimento - scrivono i giudici - la violazione di quest'ultimo non comporta la consumazione del potere in capo all'Autorità procedente e la conseguente illegittimità del provvedimento adottato tardivamente».

I giudici smontano anche l'accusa di incostituzionalità delle norme appellate. Accusa fondata sul parallelismo tra, da una parte, le misure di prevenzione patrimoniali e, dall'altro lato, l'informativa antimafia e il diniego di iscrizione in white list. In particolare, si respinge al mittente l'accusa secondo cui «l'informativa antimafia "comporta la morte dell'impresa", essendo la limitazione circoscritta ai soli rapporti economici con la Pa, nulla impedendo all'imprenditore di continuare la propria attività nei rapporti con privati». Si tratta, insomma, di misure a carattere preventivo tese a evitare che la Pa alimenti operatori e organizzazioni criminali, ben diverse dalla più incisive misure di prevenzione patrimoniali, che comportano «una serie di obblighi, di fare e di non fare, in varie forme restrittive della sua personalità, di carattere ben più esteso e penetrante, limitandone pesantemente la disponibilità di beni di proprietà o la libertà personale, di iniziativa economica, di circolazione e residenza».

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