Appalti

Verifiche «sostanziali» sui requisiti dell'in house

di Stefano Pozzoli

La pronuncia della Cassazione, a Sezioni Riunite, con la sentenza n. 3330/2019 (sul Quotidiano degli enti locali del 20 febbraio), impone oggi una riflessione su quello che debba essere la sostanza e la forma nel caso particolare dell'in house providing ma merita una riflessione forse ancora più generale.

Anzitutto ricordiamo la questione. La Corte dei conti aveva ritenuto che Trambus (oggi Atac) fosse una società in house providing, in quanto interamente del Comune di Roma, aveva in affidamento diretto il servizio di trasporto pubblico locale del Comune e aveva sì previsto nello statuto la possibilità di apertura ai privati, ma questa eventualità non si era mai realizzata. Per la Cassazione, invece, di per sé «la partecipazione pubblica, anche totalitaria, di una società di capitali non radica la giurisdizione della Corte dei conti" e la precisazione che vi sia giurisdizione della Corte dei conti per la responsabilità degli organi sociali per danno solo nelle società in house providing, "nelle quali, in ragione delle loro particolari caratteristiche, la distinzione tra socio pubblico e società non si realizza in termini di alterità soggettiva (Cass., Sez. U., n. 26283 del 2013, cit.)».

Secondo la Cassazione dunque, la verifica della ricorrenza dei requisiti propri dell'in house, deve compiersi con riguardo alle norme e alle previsioni statutarie vigenti alla data del fatto illecito. Nel caso di specie, pertanto, «la Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha modificato sensibilmente i suddetti requisiti, non può essere applicata, al fine di affermare la giurisdizione contabile, nei casi in cui i fatti generatori del presunto danno erariale si siano svolti, non solo prima della sua pubblicazione nella G.U. dell'Unione europea (24 marzo 2014), ma anche prima del suo recepimento in Italia, trattandosi di direttiva non immediatamente esecutiva, ma da attuarsi entro il termine di recepimento dalla stessa previsto (18 aprile 2016), rispettato dallo Stato italiano con l'adozione del d.lgs. n. 50 del 2016 (Cass., Sez. U., 28/6/2018, n. 17188)».

Su queste considerazioni generali è difficile non essere d'accordo.
Il dissenso che ci sentiamo di esprimere, però, riguarda l'approccio con cui si va a verificare l'esistenza o meno dei requisiti dell'in house providing, viste le conseguenze che questo può avere in concreto. Avrebbe senso, ribaltando la situazione, parlare di in house, a fronte di uno statuto formalmente perfetto, anche nel caso di una società che abbia soci privati (perché magari una società partecipante un tempo pubblica è stata dismessa e ha mantenuto la partecipazione), non venga in alcun modo esercitato il controllo analogo dovuto e che abbia un fatturato sensibilmente influenzato da attività commerciali neppure statutariamente previste? Senza un vaglio dei contenuti sostanziali e non solo formali dell'inquadramento delle società diventa, in sostanza, fin troppo facile far rientrare od escludere, per comodità magari contingenti, una azienda dalla giurisdizione della Corte dei Conti o da altri effetti normativi.
Con un approccio formale, invece, il rischio, è di fare prevalere i comportamenti opportunistici. In certi casi, ad esempio, può essere ritenuto vantaggiosa presenza di della giurisdizione contabile, perché di fatto concentra la sua azione su amministratori e dipendenti della azienda, e non sui soci; in altri quella civilistica, perché al contrario rende più difficile l'azione risarcitoria sugli amministratori societari.
Dalle future elaborazioni giurisprudenziali e, se del caso, dai prossimi interventi legislativi, ci aspettiamo invece un insieme di regole che responsabilizzi, in concreto, tutti a svolgere con correttezza il proprio ruolo.

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