Amministratori

Prima sfida, recuperare la reputazione della Pa: piano assunzioni, formazione e comunicazione

di Sergio Talamo

La nuova ministra della Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone, sulla sua scrivania trova un primo interrogativo: perché anche questa volta il suo ministero è stato ritenuto non strategico, e persino trascurato nelle cronache sul ‘totoministri’?
Può sembrare una questione minimale o solo mediatica, ma non lo è. Non è solo la conseguenza di un’eccessiva valutazione dei Ministeri con portafoglio rispetto a quelli senza. Il portafoglio del Ministero Pa, del resto, possiede tasche larghe e implicite, in quanto per quella via passano sia i principali contratti collettivi sia la regia della spesa di quote importanti di fondi europei.
Alla base della ridotta considerazione c’è il minimo peso specifico dell’Amministrazione statale nel dibattito politico. Il sistema pubblico non si riesce proprio ad emancipare da alcuni luoghi comuni: la burocrazia elefantiaca, l’improduttività, i costi eccessivi, l’opacità delle procedure, sino a insopportabili locuzioni dispregiative come ‘palla al piede’, ‘furbetti del cartellino’ o ‘fannulloni’. È in parte l’eredità di uno Stato che nacque in circostanze storiche sfavorevoli. Il modello era quello napoleonico, quindi centralistico e fornito di autorità assoluta e insindacabile rispetto al cittadino. Ma la sua formazione risentì da subito delle vicende cruente dell’unificazione, creando una sfiducia di gran parte del paese verso le istituzioni centrali. Anche da qui nasce il grande deficit di reputazione che interessa la Pa italiana, con il proliferare di cliché negativi tanto pesanti quanto infondati, in un sistema che comporta costi del tutto in linea con quelli europei e che dal 2008 ha pagato prezzi altissimi in termini di tagli, blocco del turn over e obsolescenza delle infrastrutture.
Come è accaduto ai suoi predecessori, la nuova Ministra si accorgerà presto di quante competenze e passione siano diffuse fra i lavoratori pubblici, sia pure spesso impigliate in un clima di generale rassegnazione. Il circolo vizioso è ben noto: le prestazioni al pubblico sono di qualità perlomeno disomogenea, l’immagine dello Stato è spesso lesa da riflettori che si accendono solo sulle disfunzioni e mai sulle eccellenze, i funzionari (la cui età media cresce inesorabilmente per assunzioni fatte con il contagocce) scivolano verso la passività e la demotivazione. Si pensi solo all’epopea dell’Anticorruzione, che da benefica linea di lavoro preventiva, si è trasformata in una presunzione di colpevolezza che rende necessaria un’Autorità e centinaia di adempimenti spesso superflui o ridondanti. Ecco perché le due leve centrali da muovere riguardano non tanto le norme ma le persone, intese come ‘erogatori’ della prestazione, quindi i funzionari e i dirigenti, e come ‘destinatari’, cioè i cittadini.
In poche sintetiche parole: contemporaneamente al rinnovo dei contratti pubblici scaduti nel 2018, sono urgenti:
a) un piano di assunzioni mirate per rispondere ai nuovi fabbisogni di competenze e per ringiovanire il personale;
b) la formazione (anche in entrata);
 c) il rilancio strategico della comunicazione al cittadino con il pieno riconoscimento dei nuovi media.

Sul versante della comunicazione pubblica e della trasparenza
Da più parti si sottolinea che sarebbe inutile una nuova riforma globale, e non si può che convenire. Ma non è esatto dire che al sistema pubblico non occorrano norme più precise e vincolanti, ad esempio in materia di comunicazione e trasparenza. La comunicazione pubblica è la frontiera più delicata della reputazione, perché nella capacità di adoperare codici linguistici e tecniche corrette, e nella connessa attitudine a recepire il feedback dell’utente, c’è il seme di una nuova intesa fra Stato e cittadino. La materia è attualmente retta da una legge preistorica, la legge 150/2000, che per motivi cronologici non poteva disciplinare la comunicazione web e social e che peraltro era impostata su una pretesa ‘didattica’, per cui la comunicazione serve principalmente a illustrare le leggi al cittadino. Oggi la Pa italiana è ricca di esperienze di uso dei social che fanno uso di immagini, video e stories, e sviluppano interazioni con l’utente in anche tempo reale. Dall’interazione al feedback finalizzato al miglioramento del servizio, e alla valutazione delle prestazioni, il passo è breve. Basta volerlo compiere davvero, dando così sbocco effettivo alle importanti sperimentazioni di e-government compiute dall’Italia, molte delle quali incentrate sull’uso delle nuove tecnologie per la citizen satisfaction. Peraltro, questo approccio servirebbe a dare sbocchi ad un’altra grande incompiuta italiana, la legislazione sulla performance, introdotta già 10 anni fa, e da 2 anni indirizzata verso un forte ricorso alla valutazione civica. Inoltre la comunicazione social realizza un’idea di trasparenza in tempo reale ed erga omnes, superando di fatto anche la previsione del decreto 97/2016, il cosiddetto ‘Foia italiano’, che introduce nel nostro sistema la trasparenza totale, cioè il diritto di accesso ad ogni atto o documento prodotto dalle Pa salvo eccezioni catalogate. La trasparenza totale ha avuto un avvio molto stentato anche a causa di una comunicazione insufficiente ed episodica. A poco servono gli interventi regolativi emessi a livello centrale (peraltro la circolare 1/2019 del Governo uscente ha avuto un respiro molto limitato), se il cittadino non è informato di questo nuovo potente diritto e non è aiutato ad esercitarlo in concreto, come strumento di conoscenza ma anche di intervento per verificare e migliorare la qualità dei servizi. Il fatto che la trasparenza sia soprattutto uno strumento di verifica e miglioramento dei servizi lo ha più volte ribadito anche l’Anac, ed è scritto a chiare lettere nell’articolo 10, comma 9, del decreto 33, confermato dal decreto 97: «Dobbiamo considerare la trasparenza come una dimensione principale ai fini della determinazione degli standard di qualità dei servizi pubblici da adottare con le carte dei servizi». Ma la trasparenza non può essere semplicemente un esercizio casuale, deve riferirsi a dei precisi parametri. Le carte dei servizi e gli standard di qualità devono fare da spina dorsale di un uso della trasparenza finalizzato alla riqualificazione verificabile delle prestazioni pubbliche. In definitiva, occorre operare per una ‘legge 151’, come viene chiamata dagli addetti ai lavori il nuovo Codice unico della comunicazione pubblica. Una normativa organica che rilanci il dovere comunicativo come un’opportunità storica di realizzazione della trasparenza, intesa come spazio di partecipazione civica, e che per questo va nettamente separata dalla trasparenza-anticorruzione. Una legge che sarebbe anche necessaria per definire e regolare le figure della comunicazione digitale, ormai lontanissime dalla diarchia urp-uffici stampa prevista dalla 150 del 2000. Per tale strada diviene possibile il recupero di immagine dell’azienda pubblica.

E sul versante della formazione
Sul versante della formazione, osservano Francesco Verbaro e Gaetano Scognamiglio: «Occorre cogliere l’occasione storica che vede la fuoriuscita di migliaia di unità di personale e la fine temporanea del blocco del turnover. La qualità del personale sarà determinante per il futuro della Pa. Soprattutto al Sud. Per questo il reclutamento della Pa non può più essere uno strumento per risolvere il problema della disoccupazione giovanile». Il punto centrale è in effetti quello di rendere stabili la formazione e la sperimentazione delle innovazioni che qualificano il servizio. Aggiunge Carlo Mochi Sismondi: «Giovanni Bianchi vorrebbe imparare, ma non sta parlando di corsi per gli adempimenti di legge, quelli non cambiano nulla, ma di una formazione sfidante, magari a distanza, da cui uscire arricchiti e certi che quello che si è appreso sarà utile per l’organizzazione in cui si lavora... E vorrebbe avere a fianco qualcuno che l’aiuti nell’innovazione quotidiana e necessaria e che, per favore, non sia un giurista che gli illustri una legge, ma un collega esperto, uno che le cose nuove le ha già sperimentate, che gli mostri un comportamento, un know how, perché, dice Giovanni, non è più tempo di norme, ma di manuali».
Ecco riassunta un'altra chiave della svolta: solo una formazione imperniata anche sull’affiancamento dei senior rispetto ai nuovi assunti può aiutare a passare dalla cultura delle procedure, favorita da una normazione confusa e sovrabbondante, a quella del risultato. Un risultato valutato dal cittadino. Sulla valutazione civica, le ultime due Ministre della Pa – Madia e Bongiorno – hanno mosso dei passi, ma il cammino appare ancora incompiuto. Eppure solo chi usa in concreto un servizio può valutarlo e reindirizzarlo.
La Pa che riconquista la reputazione che merita, con il connesso orgoglio di farne parte, è in primo luogo una PA ‘che funziona’.

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