Appalti

Regolamento appalti/2. Imprese di facility e multiutility: norme ad hoc per la qualificazione

di Massimo Frontera

Le grandi multiutility a controllo pubblico che gestiscono le reti idriche ed energetiche di vasti territori; e i grandi operatori di facility management che gestiscono infrastrutture e immobili pubblici aprono un nuovo fronte nel dibattito sul nuovo regolamento attuativo del codice dei contratti. E chiedono che nel regolamento attuativo del codice siano previste norme che superino l'attuale quadro normativo che non riconosce né a questi operatori una adeguata valutazione delle capacità e dell'expertise maturato ai fini della partecipazione alle gare pubbliche in Italia. L'iniziativa ha preso le mosse nel corso del workshop "Per una nuova qualificazione degli appalti pubblici", svoltosi lo scorso 3 dicembre a Milano, presso la sede dell'Uni, al quale hanno partecipato i grossi calibri della gestione delle reti, come A2A, Hera, Iren e big del facility come Rekeep, Dussman, Cpl Concordia, oltre alle imprese Consorzio Integra, Pessina e Gencantieri, e a Cqop Soa. Nel seminario tecnico sono stati anticipati alcuni elementi dello "Studio sulla qualità nelle costruzioni e nelle opere pubbliche e sulla qualificazione delle imprese" che il Cresme sta completando e che sarà presentato nei primi mesi del 2020.

Cresme: cresce il mercato «complesso»
Lo studio romano ha messo sotto la lente il cambiamento in atto nel mercato dei lavori pubblici evidenziando come il tradizionale appalto di lavoro ( o di progettazione e realizzazione) sia una tipologia sempre meno rilevante nel mercato, dove invece sta per diventare preponderante la componente che il Cresme definisce «complessa» e che riguarda principalmente il prodotto-servizio di un bene pubblico (immobile, infrastruttura o rete) dato in concessione di costruzione e/o gestione. «Se suddividiamo il mercato delle opere pubbliche in opere tradizionali, all'interno delle quali inseriamo gli appalti di sola esecuzione, gli appalti integrati e il contraente generale - spiega Lorenzo Bellicini - e in opere complesse, all'interno delle quali inseriamo il Ppp nelle sue varie tipologie e gli interventi di Costruzione, manutenzione e gestione, notiamo che nel 2002 l'86,7% del mercato era costituito da appalti per opere tradizionali e solo 13,3% dai mercati complessi; mentre nel 2019 i mercati tradizionali sono scesi al 57% e i mercati complessi sono saliti al 43%» Non solo. «Se poi - aggiunge Bellicini - prendiamo in considerazione anche l'attività di manutenzione ordinaria che nelle reti e negli edifici riguarda l'esternalizzazione dei servizi di facility management nel periodo gennaio-ottobre 2019 - altri 3,4 miliardi di euro sono da attribuire all'attività di manutenzione». Da questo si ricava che «il 53% degli importi messi in gara nel 2019 ha a che fare con un mercato "non tradizionale"». Conclusione? «Il mercato delle opere pubbliche è cambiato, come è cambiato il mercato delle costruzioni».

Cresme/1. Bandi 2002, 2018 e 2019 (gennaio-ottobre), per tipo di mercato
Cresme/2. Bandi 2017-2019 (gennaio-ottobre), per tipo di mercato e oggetto

Il quadro normativo (tradizionale) e il mercato «complesso»
A fronte di una crescita dimensionale delle forme di appalto complesso, rispetto a quelle tradizionali, l'impianto normativo - questa la tesi del Cresme e delle imprese che hanno partecipato al seminario milanese - resta ancorato alla tradizionale concezione dell'appalto di lavori. La conferma del fatto che il "vino nuovo" non trova "nuovi otri" arriva dalla bozza di regolamento attuativo del codice dei contratti (in fase di riscrittura in questi giorni). «La bozza del nuovo regolamento - attacca Antonio Galliano, direttore tecnico di Cqop Soa - non prevede la qualificazione dei soggetti appartenenti al mondo delle multiutility e del facility management: dal 2002 in avanti per questi soggetti c'è sempre stato un contrasto di normative: attualmente i concessionari di servizio pubblico sono inquadrati dal codice, ma non è prevista una qualificazione per questi soggetti che devono gestire un'opera complessa come una rete di distribuzione o un servizio ospedaliero». «Le Soa - aggiunge - si sono dovute "inventare" un metodo di qualificazione andando a valutare, nell'ambito della gestione del servizio, la quota di lavori eseguiti attraverso le risorse proprie di questi soggetti e le risorse di terzi». «La carenza di normativa specifica sulle concessioni - punta il dito Giancarlo Gentilini del Gruppo A2A - trova una sua continuità nell'evoluzione normativa quindi è difficile pensare che non sia voluta». Quanto alla qualificazione, Gentilini sintetizza il problema: «Quando si parla del costruttore ordinario si accetta il principio che possa realizzare le opere in proprio e possa attestarsi, nel nostro caso no».

«Fino ad oggi - ricorda Simonetta Iotti, responsabile delle certificazioni Soa del Gruppo Iren - l'unica possibilità di qualificarsi è stata riconoscendo il premio di coordinamento del 30% per i lavori eseguiti da terzi, possibilità data dall'articolo 85 del vecchio regolamento 207, e che invece nella bozza del nuovo regolamento è addirittura scomparsa: quindi ad oggi se le aziende come le nostre volessero qualificarsi per partecipare alle gare non avrebbero alcun modo di farlo». «Il problema principale di tutte le norme che si sono susseguite - osserva Fabrizio Mazzacurati, direttore ingegneria del Gruppo Hera - è la mancanza di una chiara visione di quelli che sono i soggetti industriali che oggi operano nel settore e la loro configurazione fisica».

Il rapporto con la Pa è difficile anche per i big del facility. «I servizi di facility management che vanno oltre la realizzazione e la gestione di un'opera fisica ma che supportano le amministrazioni nella gestione dei loro processi core business - dice Maurizio Massanelli, direttore marketing e innovazione di Rekeep - non trovano nella normativa attuale un riscontro in tema di servizi». L'assenza di un sistema di qualificazione, lamentano gli operatori, impedisce che aziende che hanno maturato expertise e che abbiano elaborato soluzioni qualitativamente elevate non riescano a farsi riconoscere un valore dalla Pa che spesso esternalizza i servizi con l'obiettivo di ridurre i costi. «Alla Pa non si fornisce semplicemente una commodity, un prodotto - rimarca Massanelli -. Bisogna ridare alle amministrazioni la possibilità di dialogare con le imprese per individuare nuovi modelli su cui costruire capitolati innovativi». C'è poi il rischio che la Pa rimetta in discussione anche la scelta dell'esternalizzazione, per tornare a incorporare nuovamente servizi, come segnala Renato Spotti, Ad di Dussmann service, nelle scelte di alcune amministrazioni locali e territoriali per i servizi pubblici, scolastici o nella ristorazione: «Mi chiedo se si tratta di eventi isolati o di un trend che sta iniziando, visto che esistono esempi simili in Europa».

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