Con il populismo fallisce la riforma della Pa
Sabino Cassese, studioso esimio della materia e non solo, recensisce sul Sole la Storia dell’amministrazione italiana di Guido Melis, grande e originale analisi storica dell’amministrazione di governo e burocrazia nel nostro paese. Il lavoro si conclude indicando le cause, secondo Melis, del fallimento delle riforme tentate per trasformare la nostra burocrazia in un fattore di sviluppo: in sintesi, un eccesso di elitismo, di non facile comprensione; troppa fiducia nella legge rispetto a strumenti più propriamente amministrativi, l’attenzione rivolta al procedimento e all’organizzazione anziché alle funzioni e quindi al reclutamento.
Di cause, ce ne sono sicuramente altre, di merito e non solo. A meritare la qualifica di riforma, anzitutto, non sono molte, probabilmente sola la massiccia riforma di fine secolo che prende il nome dal ministro proponente, Franco Bassanini. Basta ricordare agli scettici che a chiedere a Bassanini di spiegarla ai francesi, tradizionali e supponenti dispensatori di buona burocrazia, fu l’allora ministro dell’interno del governo francese, Nicolas Sarkozy. La cenerentola delle burocrazie, saliva in cattedra, inopinatamente e orgogliosamente, nella terra dei campioni. A raccontare novità quasi epocali, persino nel resto d’Europa: quali la separazione consensuale e non rituale tra due grandi, tradizionali complici, la politica e l’apparato pubblico. Separazione favorita dall’apertura di una competizione tra pubblico e privato per l’ingaggio dei migliori manager. Manager, non giuristi. Due eterni tabù insidiati in un colpo solo: non più solo giuristi raffinati a sorvegliare e dettare procedure e controlli laddove servivano anche, in quel tempo soprattutto, competenze di merito, rapidità, efficienza, efficacia, in un’economia che si faceva globale ed interconnessa. E quindi manager, un termine che non ha controvalore nella nostra lingua, in luogo di controllori di palazzo, a garantire non solo la correttezza dei procedimenti, ma la messa in opera dei progetti. Ancora: si buttava alle spalle un rapporto moralisteggiante tra responsabilità e retribuzione, quasi che far funzionare pezzi di Stato o altro di pubblico fosse una vocazione, o una missione.
Così doveva essere, e così non fu. Bassanini raccontò un modello di burocrazia, una serie di leggi, prima che fossero realizzate. Due novità, una politica e una istituzionale, segnano quegli anni a cavallo di due secoli e due millenni. La politica, i partiti, perdono la capacità elaborativa dei vari filoni ideali, per diventare fortini di produzione e conservazione di consenso, all’insegna del pensiero semplificato, di un rapporto con gli elettori rivolto alla soddisfazione di istinti e desideri presunti più che di bisogni reali. È il germe del populismo, un germe contagioso che aggredisce anche gli organismi propositivi. Nel giro di pochi anni, si passa dalla escavazione profonda delle riforme citate, alla basicità banale dei furbetti del cartellino, capolavoro di semplificazione della complessità di un problema. Comincia l’epoca del taglio come modello di riforma: che siano vitalizi di vecchi rappresentanti del popolo, popolazione delle camere, retribuzioni differite e concordate con lo Stato, reddito di chi dirige settori dello Stato. Risparmi costosissimi.
Eppure, bastava attuarla, quella riforma, era tutto scritto. Ma qui intervengono le cause più profondamente istituzionali. La nostra politica non è più quella nella quale maggioranze e opposizioni usarono le camere per costruire assieme monumenti al bene collettivo come la riforma sanitaria, sulle cui spalle martoriale si trova ancora quel tanto di capacità di reggere ad un nemico come la pandemia che la politica di oggi non saprebbe dove trovare. Oggi il consenso sta più negli insuccessi del nemico che non nelle proprie virtù, e dare corpo alla riforma del nemico significa donare e perdere consenso. È la scomparsa progressiva di un principio basilare, la continuità dello Stato: che richiede che i Governi, simili o diversi, siano i protagonisti di una staffetta continua, in cui ognuno trasmette qualcosa. I guai cominciano quando Governi si sentono concorrenti pro tempore dello Stato, e giudici dei governi che li hanno preceduti.
Democrazie ben piantate in terra, quindi con fondamenta condivise dalle forze politiche, si trasmettono da decenni e attraverso svariati governi l’assetto di materie fondamentali per la solidità nel progresso di una comunità nazionale. Materie come la scuola e l’istruzione, prima di tutto; le leggi elettorali, nazionale e locali; ma anche le regole delle burocrazie, e la interlocuzione di queste con i cittadini. Senza badare alla propria convenienza. Un assetto stabile, per consentire il principio della continuità dello Stato attraverso i governi, normalmente attraverso l’alternanza dei governi. L’Italia deve ritrovare quella continuità, ma si sta inoltrando nella direzione opposta. Contraria. Almeno fino ad oggi.