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Ponte di Genova/1. Renzo Piano ripercorre i passi della realizzazione

L'architetto genovese racconta la grande opera, dal momento della tragedia fino al sollevamento dell'ultima campata. Con due obiettivi: creare sicurezza e bellezza

di Fulvio Irace

«Dalla finestra di casa riesco a vedere il Beaubourg: è vuoto, come tutti gli altri edifici pubblici che ho fatto in giro nel mondo. Edifici pensati come luoghi d'incontro, architetture della convivenza, che oggi, paradossalmente, questo terribile virus ci obbliga a pensare come pericolosi». Dal Marais di Parigi, dove Renzo Piano è costretto dal confinement, si vede il Beaubourg ma non il mare di Genova dove è aperto uno dei cantieri più impegnativi della sua lunga carriera e certamente quello che al momento è al centro dei suoi pensieri: il nuovo Ponte, di cui il 28 aprile è stata posata l'ultima campata (la diciannovesima) dell'impalcato lungo mille metri, che dovrebbe essere inaugurato tra circa due mesi. Costruito in un anno («una sfida pazzesca, impensabile senza la passione collettiva che l'ha accompagnata»), il ponte è destinato a durare mille anni: per Piano è stato come costruire una cattedrale, non solo per la complessità tecnica che si nasconde dietro le linee pulite del suo sottile profilo, ma perché, come le cattedrali, sarà il ritratto corale di una intera comunità (di progettisti, di tecnici, di operai) che nella sua ricostruzione si rappresenta, riconoscendolo come simbolo di riscatto dell'orgoglio italiano.

«Ero al Cern di Ginevra - ricorda Piano - quando, all'indomani della tragedia, mi ha chiamato il sindaco per condividere lo sgomento e un parere sull'immediato da farsi. La mia prima risposta è stata istintiva, da costruttore: ho scaricato sull'iPad una cartina della valle del Polcevera - un luogo a me caro per tanti ricordi familiari - e con un gesto molto elementare ho cominciato a vedere dove si potevano mettere i piedi di questa nuova creatura. Aiutandomi con il palmo della mano, ho calcolato con le dita, come farebbe un bambino, le distanze tra un elemento e l'altro, immaginando i passi da fare per coprire l'intera distanza di un chilometro. Così, semplicemente, mi è sembrato che facendo un passo di 50 metri si riusciva a mettere i piedi sempre nel punto giusto. Tranne quando incontri il Polcevera, dove devi allungare il passo portandolo a 100 metri proprio come fai istintivamente se ti trovi davanti un rivolo d'acqua. Il progetto è cominciato così, con dei ragionamenti pratici, empirici, come era giusto fare davanti a una tragedia che impone solo di dare una mano, di essere d'aiuto.

Partendo dalla realtà e poi dando all'intuizione lo spessore e la profondità necessari a un'opera che mi ostino a considerare un servizio civile nei confronti della città».Una reazione da "genovese", dunque, prima ancora che da architetto e che gli ha consentito di tenere sulla giusta rotta il timone di un'impresa che avrebbe rischiato anche di impelagarsi nelle lungaggini della burocrazia e nel mare mosso della politica. Superata una prima selezione tra imprese (che aveva visto anche la partecipazione di Santiago Calatrava con la Cimolai di Pordenone), a dicembre 2019 giunge la definitiva scelta del progetto di Piano, sostenuto dalla cordata Salini Impregilo-Fincantieri. «Io non feci altro che confermare la mia prima ipotesi di progetto - ricostruisce Piano - cercando una conferma nello studio dell'area, della forza dei venti che nella valle del Polcevera sono particolarmente forti e soprattutto nella valutazione della peculiarità della zona sottostante il futuro ponte. Bisogna tener presente infatti che questo non sovrasta un'area selvaggia e solitaria, ma un quartiere densamente popolato. Che cosa significa dal punto di vista del progetto? Molte cose pratiche, ovviamente, che riguardano la sicurezza, ma anche cose più sottili cui personalmente faccio fatica a dare un nome preciso, perché quello più appropriato e diretto sarebbe pur sempre la bellezza, che nutre l'immaginario».

E infatti per non nominare la parola giusta - bellezza - Piano ricorre alla logica delle argomentazioni fisiche, oggettive: «Ho fatto un ragionamento da geografo che conosce la topografia del terreno e le condizioni climatiche. Un ponte che corre diritto come un nastro prima del guizzo della svolta finale per imboccare la galleria, riceve il sole al tramonto come una carezza lungo la superficie liscia della sua pancia. L'ultima volta che sono stato in cantiere - da cui manco ormai da oltre due mesi -, quando i piloni erano già montati con le prime scocche, ho verificato che le nostre intuizioni erano giuste: il sole metteva in risalto la pancia del ponte, la chiglia di questo vascello bianco sollevato a 45 metri da terra, offrendolo alla vista di tutti gli abitanti del quartiere. Il Ponte non è fatto solo per essere percorso dalle auto: è un segno forte che attraversa la valle ad alta quota; è una presenza costante che deve suscitare affetto e non apprensione. Dietro la tecnica molto spesso c'è una cosa non detta, la poesia: se ne parla poco però, perché, come il silenzio, appena la nomini svanisce».

Eppure, come già già raccontato un anno fa (sul Sole 24 Ore del 12 agosto 2019), senza un forte pensiero sulla sua realizzabilità, ogni pur bella idea avrebbe fatto fatica a procedere così speditamente. Lo conferma Renzo Piano, quando sottolinea che il punto di partenza è stato la fiducia in una precisa idea costruttiva: «Abbiamo diviso il cantiere in due; un cantiere edile-logistico, che si occupa delle fondazioni delle pile e di tutte le opere in sito, e un cantiere di carpenteria navale (a Sestri Ponente e a Castellammare di Stabia) dove si sono prodotte in contemporanea le chiglie di questa nave sospesa. Mentre si gettavano le basi per accogliere le opere di carpenteria metallica fatte altrove, i pezzi della "nave" viaggiavano su chiatte per poi essere trasportate in cantiere di notte.

«Mi ha fatto rivivere stranamente l'esperienza di Beaubourg - continua Piano - anche lì, di notte, trasportati su ruote dalla Germania arrivavano silenziosamente le imponenti travi metalliche da montare nel plateau del Marais. È strano, ma forse neanche tanto, che nella mia vita professionale ci sia come una continuità non ricercata ma naturale, perché basata sulla ragionevolezza di alcune scelte fondamentali. Ho persino la sensazione, ripensandoci, che quegli esperimenti sulle geometrie di piccole strutture metalliche su cui ho passato molti anni della mia gioventù, alla fine siano confluiti nel disegno delle parti "volanti" di questo ponte: allora come oggi, riemerge in me l'aspirazione a una leggerezza da esprimersi non in gesti estetici, ma piuttosto nella ricerca di un'integrità formale, dentro cui non ho vergogna di ammettere che si celi un sogno sociale: offrire un confortevole riparo alle attività dell'uomo. L'arte di assemblare - quello che chiamo il procedere "pezzo per pezzo" - insieme al desiderio, quasi al bisogno, di saggiarne le possibilità sotto gli effetti della luce».

Piano non è uomo di molte parole, anche se le poche che dice sono accolte con il rispetto che fa tacere anche i suoi più accaniti detrattori. Lo testimonia l'affetto con cui sono accolte soprattutto dai giovani che in questo architetto 82enne trovano una auctoritas capace di definire gli aspetti profondi della professione: la fiducia nel fare bene, il coraggio di dire cose semplici e di disegnare architetture che ogni volta colgono un aspetto che contiene una piccola, inattesa verità. Come quando ti spiazza citando a memoria un verso - «Genova, di ferro e aria» - della famosa Litania dedicata alla città ligure dal poeta Giorgio Caproni. «Genova - conclude Piano - è la città dell'acciaio perché lo produce e perché le navi nel porto sono d'acciaio. Ma è anche la città della luce e del vento, che arriva all'improvviso per riscattare il volto povero delle cose trasformandole in maniera inaspettata. E questo mi piacerebbe che si dicesse del mio ponte: fatto di ferro e di aria».

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