Personale

Enti pubblici, cinque tetti ai compensi per i presidenti da 38 a 240mila euro

Al Consiglio di Stato il Dpcm che misura i limiti in base alle dimensioni del bilancio

di Gianni Trovati e Stefano Pozzoli

Prendono forma le regole con i nuovi tetti ai compensi degli amministratori e dei controllori negli enti pubblici.

I numeri

L’impianto, articolato in cinque fasce in base alle dimensioni dell’organismo da gestire o vigilare, è scritto in un Dpcm preparato dalla Ragioneria generale dello Stato con Palazzo Chigi e inviato al Consiglio di Stato per il parere. Negli enti più piccoli il presidente non potrà guadagnare meno di 20mila e più di 38mila euro lordi all’anno: per il vice si va da 5mila a 13.300 euro, mentre i consiglieri di amministrazione si dovranno accontentare di una somma fra i 2mila e i 7.600 euro. Negli organi di controllo si va dai 3mila-5.700 euro previsti come limiti minimo e massimo del presidente ai 2mila-4.560 riservati agli altri componenti. Queste cifre salgono poi di scalino in scalino, modulati in base agli indicatori dimensionali, fino ad arrivare ai 150mila-240mila euro indicati come confini dei compensi per chi guida gli enti più grandi. Con la solita graduazione dei limiti per gli altri.

Una lunga storia

Il testo, si diceva, è uscito dai palazzi del governo per finire sui tavoli dei giudici amministrativi per l’esame indispensabile al via libera finale. E già questa è una notizia. Perché il decreto attua una delle tante regole scritte sull’onda di una presunta urgenza, motivata dalle solite parole d’ordine dei tagli a «poltrone» e «costi della politica» molto in voga qualche anno fa, che come è capitato spesso ha acceso un dibattito rapido a infiammarsi quanto a spegnersi quando si è trattato di passare alla parte giudicata più noiosa: quella dell’attuazione effettiva delle decisioni. Ora la macchina è ripartita, e indica la volontà del premier Draghi e del ministro dell’Economia Franco di riprendere il filo del discorso per portarlo al traguardo dell’applicazione. In quest’ottica il decreto sugli enti pubblici potrebbe essere quindi seguito a stretto giro dalle regole parallele sulle società partecipate. In quest’ottica il decreto sugli enti pubblici potrebbe essere quindi seguito a stretto giro dalle regole parallele sulle società partecipate; per le società degli enti territoriali, che rappresentano l’ampia maggioranza, i compensi sono ormai cristallizzati all’80% di quanto percepito nel 2013, con un congelamento che sta creando parecchie tensioni.

La divisione in cinque fasce pensata per non applicare limiti uguali a realtà così diverse fra loro, nel caso delle società è comparsa per la prima volta nella legge di stabilità del 2015. Che in uno slancio di ottimismo aveva messo in calendario il decreto attuativo entro 30 giorni dall’entrata in vigore. Poi la questione era rimbalzata nella riforma Madia del 2016. Dove si era impantanata. Le regole sugli enti pubblici, al centro del nuovo decreto, sono scritte nella legge di bilancio 2020 (legge 160/2019, comma 596).

Gli enti interessati

Il nuovo impianto parte proprio da lì. Si tratta di una platea ampia che nell’elenco Istat delle Pa comprende gli «enti produttori di servizi economici» (le agenzie, l’Enac, l’Enit solo per fare qualche esempio), gli «enti produttori di servizi assistenziali, ricreativi e culturali» (come il Coni, la Croce Rossa, la Biennale di Venezia o il Festival dei Due Mondi), gli enti di ricerca (Enea, Cnr, Agenzia spaziale italiana eccetera) e le Autorità indipendenti, chiamate a fissare gli emolumenti «in coerenza con i principi» fissati dal regolamento. Resta però combattuta la sorte della miriade di enti partecipati da regioni ed enti locali. La bozza di decreto li esclude insieme agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie, ma il Consiglio di Stato ha già scritto a Mef e Palazzo Chigi per ricordare che la norma primaria si limita a esonerare gli enti del servizio sanitario nazionale.

Per costruire i cinque livelli, il decreto incrocia quattro parametri: il patrimonio netto, l’attivo, le spese di personale e il valore della produzione. Ciascuno di questi indicatori è articolato in sei fasce, a cui viene attribuito un punteggio. La somma dei punteggi determina la classe in cui viene collocato l’ente pubblico, e quindi i conseguenti limiti ai compensi. Per dare un’idea, sul patrimonio netto la prima fascia arriva a 10 milioni, la seconda a 30, e le successive scattano a 100 milioni, 500 milioni e un miliardo. Nel valore della produzione si è in prima fascia fino a un milione di euro, e poi si sale di scalino in scalino a 10, 50, 150 e 250 milioni.

Le conseguenze

Le ricadute pratiche dipendono dai livelli dei compensi attuali, che sono stati scelti in assenza di regole rigide e potranno essere confermati fino alla scadenza dei mandati. Ma i numeri sembrano prospettare tagli anche consistenti per le realtà nelle prime due classi, che sono la maggioranza visti i parametri elevati fissati dal decreto.

Individuata la classe di appartenenza, nemmeno la scelta fra il limite minimo e massimo dei compensi è discrezionale. Perché va fondata su una serie di parametri di complessità, individuati dal decreto, che comprendono l’esclusività del rapporto di servizio del presidente, il grado di autonomia finanziaria ma anche il numero delle sedi. Una deroga è possibile quando i parametri determinerebbero compensi «non idonei». Ma andrà motivata in base al carattere strategico dell’ente, all’«effettivo livello di responsabilità» e alla «specifica qualificazione professionale» necessaria per l’incarico. E, soprattutto, dovrà essere autorizzata da Palazzo Chigi.

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