Università, una riforma contro il precariato che penalizza le carriere
In fase di conversione del decreto-legge 36 sono state introdotte modifiche sostanziali all’impianto del sistema universitario.
La legge 79, approvata il 29 giugno, interviene soprattutto sull’organizzazione del pre-ruolo, riflettendo in parte, ma con cambiamenti rilevanti, il testo di un Ddl di iniziativa parlamentare il cui obiettivo dichiarato era quello di semplificare le figure pre-ruolo e «svuotare le sacche del precariato». In realtà le nuove norme si limitano a decretare la precoce espulsione dal sistema di molti giovani studiosi che vorrebbero cimentarsi con le sfide e le opportunità della ricerca, semplicemente spostando il precariato al di fuori dell’università e facendo quindi finta che sia miracolosamente sparito.
Esistono al momento tre figure pre-ruolo: gli assegnisti di ricerca, i ricercatori a tempo determinato (“tipo A”), e quelli tenure-track (“tipo B”), i quali ultimi possono essere promossi a professore associato di ruolo, e invariabilmente lo sono. Le figure si riducono ora a due: i ricercatori tenure-track, e nuovi “contrattisti di ricerca” che sostituiscono assegnisti e ricercatori “A”, ma, al contrario di questi ultimi, non costituiscono parte integrante del corpo docente, non possono svolgere compiti di didattica, e sono assunti solo per «specifici progetti di ricerca» (addio ai post-doc “a cielo aperto”, in cui chi vince sceglie cosa studiare). La modifica, peraltro, è parzialmente differita nel tempo, perché per i prossimi anni si potranno ancora bandire posti di “tipo A” finanziati dal Pnrr, una misura contraddittoria rispetto alle finalità del Ddl e foriera di sanatorie ope legis, in parte già previste fin d’ora con corsie preferenziali per gli attuali “A” e assegnisti.
Questi cambiamenti peggiorano le prospettive di chi ambisce a una carriera nell’università.
Anziché raddrizzare effettive storture nell’uso – e abuso – degli assegni, si è preferito abolirli del tutto, eliminando dal panorama italiano una figura, quella del post-doc, ampiamente diffusa come forma di avviamento alla ricerca e alla didattica universitarie. Al danno si è aggiunta all’ultimo minuto la beffa: i nuovi contratti saranno, se tutto va bene, appena la metà degli assegni, perché costano agli atenei circa il doppio, ma una clausola draconiana impone che la spesa complessiva non possa superare quella sostenuta in media nell’ultimo triennio per gli assegni stessi, e avranno durata minima biennale, non annuale. Né il maggior costo si tradurrà in uno stipendio netto più elevato, in quanto i contratti, al contrario degli assegni, sono soggetti al pagamento dell’Irpef.
In sintesi: stesso costo complessivo, dimezzamento dei posti a disposizione, busta paga nel migliore dei casi pari all’attuale, ulteriore riduzione dell’attrattività internazionale. Anche se si vince uno di questi (presumibilmente pochi) posti, bisognerà comunque attendere una posizione tenure-track per compiere una prima esperienza di partecipazione a tutto tondo alla carriera universitaria, quella che oggi è invece consentita già ai ricercatori di “tipo A”. E prima dei contratti, niente, anche perché la legge non recepisce neppure la proposta del Ddl, di istituire “borse di ricerca”, meno attraenti degli assegni, e aperte in ogni caso anche ai semplici laureati.
È inevitabile, nella carriera universitaria, come d’altronde in molte altre, che le prime fasi siano affidate a contratti non permanenti, e che non tutti arrivino alla meta. Quello che importa è che i contratti siano retribuiti in modo adeguato, offrano una posizione riconosciuta in seno al corpo docente, e consentano di maturare un’esperienza professionale significativa mentre si consolida un profilo di ricerca tale da giustificare una posizione permanente. La sola Italia produce ogni anno migliaia di dottori di ricerca, molti dei quali aspirano a una carriera universitaria, a fronte di un organico che, anche qualora se ne prevedesse un’improbabile crescita massiccia, non potrebbe accoglierne che una piccola percentuale. Quando, prima della riforma del 2010, i ricercatori erano di ruolo, l’età media di ingresso si aggirava sui 38 anni, presupponendo una decina d’anni trascorsi tra borse, assegni e altro, perché il dottorato non “scade”, molti continuano a fare ricerca anche mentre lavorano fuori dall’università, e quindi ai concorsi possono benissimo vincere candidati più maturi. Nulla consente di prevedere che la situazione sarà diversa in futuro, anche perché questi provvedimenti non sono supportati da un’analisi di come potrà evolversi nei prossimi anni l’organico universitario, una volta esauriti i fondi del Pnrr.
Altri due aspetti della riforma destano forte preoccupazione. Ai nuovi contrattisti sarà preclusa ogni possibilità di svolgere attività didattica, al contrario dei dottorandi, cui è giustamente consentita, e degli attuali assegnisti. Si tratta di un divieto deleterio, che nasce da una distorta interpretazione dell’insegnamento affidato agli early career researchers come sfruttamento e non come opportunità, e da un’idea di ricerca “pura”, non contaminata dal rapporto con gli studenti, che ignora come proprio quel rapporto sia invece fonte inesauribile di stimoli: la simbiosi tra didattica e ricerca costituisce l’essenza stessa dell’università. Insegnare fin da subito, ovviamente entro certi limiti, è fondamentale per la maturazione come studiosi, oltre che per il prosieguo della carriera, e non solo per chi vuole competere all’estero, dove si confronterà con dottori di ricerca e post-doc che hanno già accumulato molta pratica sul campo.
Paradossalmente, potrà invece entrare in aula, ma con contratti effimeri che prevedono compensi bassi, proprio chi non sarà riuscito a vincere uno dei nuovi “contratti di ricerca”.
La legge prevede infine che l’importo dei contratti venga demandato alla contrattazione nazionale. Si tratta di un’innovazione imprevista e con implicazioni tutte da valutare, perché i docenti universitari, come i magistrati, non sono contrattualizzati; non è chiaro se questa prima commistione tra i due regimi intende preludere a un cambiamento più ampio, che investirebbe in modo sostanziale la natura stessa dell’università.
Più che “abolire il precariato”, la nuova legge, se non intervengono correttivi o misure interpretative ad attenuarne i limiti più evidenti, si limiterà a ridurre in modo drastico la possibilità di offrire un’esperienza che può rivelarsi preziosa anche in altri àmbiti di attività, riservando la carriera universitaria a pochi eletti o a chi, grazie a mezzi propri, sarà in grado di far fronte a una lunga attesa a bordo campo.