Fisco e contabilità

La babele in 16 Autorità e una miriade di scali

I diversi siti non hanno canoni omogenei nella durata e nel costo

di Raoul de Forcade

La realtà dei porti italiani è molto stratificata e lo dimostra il fatto che le 16 Autorità di sistema portuale nate dopo la riforma del 2016, raggruppino una miriade di porti con regolamenti preesistenti, in materia concessoria (e non solo) che, in molti casi, non risultano omologati neppure all’interno della medesima Authority. E se, da un lato, è logico che scali quali Genova e Trieste abbiamo canoni più alti, e magari più lunghi, rispetto a porti con importanza commerciale molto più contenuta, è altrettanto vero che sarebbe necessaria un’omologazione delle regole a livello nazionale.

A sottolinearlo sono gli stessi terminalisti italiani. «Ogni porto - dice Alessando Ferrari, direttore generale di Assiterminal - è diverso da un altro anche in termini di appetibilità. E quindi, in linea di principio, che i regolamenti siano diversi può anche avere un senso. Il porto di Genova commercialmente è molto più appetibile di quello di Ortona; ci può stare, quindi, che nel capoluogo ligure si paghi un canone più elevato che non nello scalo abruzzese. Questo per aspetti non solo infrastrutturali ma anche di collegamenti coi mercati. Il problema è che, negli anni c’è stata una stratificazione di regolamenti che utilizzano criteri diversi per la determinazione dei canoni. E i criteri, invece, dovrebbero essere uguali per tutti. Poi, a parità di criterio, a seconda della tipologia di porto e delle condizioni che ci sono intorno al porto, si potranno avere delle risultanze diverse. Ma le regole d’ingaggio dovrebbero essere uguali; invece in Italia, attualmente, non solo ci sono regolamenti diversi da porto a porto ma anche all’interno della stessa Autorità di sistema: un esempio sono Genova e Savona». Il problema, prosegue Ferrari, deriva dal fatto che la riforma del 2016, «non ha prodotto, a oggi, dei reali sistemi di Autorità: abbiamo ancora regolamenti sul lavoro e sulle concessioni differenti tra scalo e scalo. Questo è sicuramente un tema d’inefficienza e anche di contrasto alla concorrenza. Quel che continua a mancare, è un chiaro orientamento, da parte del Governo, rispetto a un sistema di portualità che dovrebbe essere nazionale». Questa mancanza emerge, sottolinea ancora Ferrari, anche dalla disparità dei canoni concessori che si riscontrano in diversi scali: «C’è un delta che va dai 3 ai 15 euro al metro quadrato».

Vi è poi il fattore della durata delle concessioni, estremamente variabile a seconda dei porti presi in considerazione (si veda articolo sopra). Su questo, però, l’irrigidimento della Dg Concorrenza dell’Ue, rispetto alle Linee guida presentate dal Governo italiano, appare non in armonia con quanto avviene in altri porti Ue. Il limite di 10 o 20 anni di una concessione che si vorrebbe imporre all’Italia, sostengono fonti vicine al dossier, «non è pensabile, quando in Ue alcuni porti hanno limiti che vanno tranquillamente oltre i 40 anni». È chiaro che il terminalista (che talora può coincidere con un armatore) che investe milioni in un terminal per dotarlo di infrastrutture adeguate, voglia assicurarsi una concessione lunga abbastanza da consentirgli il rientro degli investimenti e margini profitto. In alcuni scali italiani, specie nel Sud, la maggior parte del traffico dipende da un’unica concessione. Metterne in discussione la durata, più che favorire la concorrenza potrebbe far crollare la movimentazione di merci. E non manca il sospetto che, su questo tema, possa pesare qualche interesse dei porti del Nord Europa nel voler frenare un abbrivio preso, nell’ultimo periodo, dagli scali del Mediterraneo. Il Governo, peraltro, sottolinea il presidente di Assoporti, Rodolfo Giampieri, «sta cercando, da una parte, di dare risposte concrete all’Ue e, dall’altra, di mantenere le peculiarità della portualità italiana, facendo in modo che la sua competitività sia sempre forte».

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©