Il Commento Appalti

Spl, attenzione alle regole di settore architrave su cui si reggono i servizi a rete

di Stefano Pozzoli

Il dibattito nato intorno al decreto di riordino dei servizi pubblici locali si sta traducendo in una riflessione tutta e solo giuridica, dove ci si confronta, più o meno dottamente, sull'articolo tale e sul comma tal altro, perdendo però di vista il fatto che si sta parlando di settori economici, di imprese e di servizi ai cittadini.

Il rischio, in altre parole, è di non riuscire a cogliere la foresta dei temi industriali, fermandosi a guardare l'alberello rappresentato da un decreto di scarso spessore, certo nato per un fine comprensibile e assolutamente condivisibile, ovvero per adempiere a un impegno con la Commissione Europea e rispettare gli obblighi imposti dal Pnrr, ma destinato a incidere assai poco sul tessuto delle Utilities e che al momento sta creando non poche e immotivate disparità tra le aziende pubbliche classificate quali servizi pubblici locali e quelle cosiddette strumentali.

Sotto quest'ultimo aspetto è facile prevedere che molte aziende di servizi pubblici diventeranno, con un colpo di bacchetta magica, strumentali. Sarebbe stato pertanto meglio unificarne la regolamentazione, così da non indurre a comportamenti opportunistici.

Per quanto riguarda il primo profilo, invece, si deve rilevare che restano irrisolte molteplici problematiche rilevantissime sotto il profilo strategico, che si ritrovano in parte nel Tusp (un decreto complessivamente ben fatto ma anch'esso privo di visione) e anche nelle discipline di settore, vero cuore della questione.

Alcuni punti da affrontare, con urgenza, sono a nostro modo di vedere i seguenti.

Anzitutto, le aggregazioni. Possibile avere disposizioni che non definiscano con chiarezza le regole da seguire? Il risultato è una complicazione assurda, anche in casi in cui è ovvio quale debba essere il partner. Occorre semplificare, soprattutto quando si tratta di aziende che convivono nel medesimo ambito o territorio.

Inoltre, tutte le privatizzazioni statali sono state effettuate in costanza di affidamento, perché l'Italia non prova a ottenere dalla Comunità Europea una deroga, magari temporanea, per favorire la cessione delle società in house? Piuttosto che ostacolare l'in house con regole astruse sarebbe certo preferibile favorire le cessioni di tali società, consentendo ai soci di mantenerne il valore.

La stessa logica andrebbe seguita nel favorire la quotazione sui mercati regolamentati delle società pubbliche. Consentire alle società che emettono bond sui mercati di essere escluse dal Tusp rappresenta un incentivo concreto e non si vede perché non concederlo. Questo, però, solo per un periodo determinato (7 anni?), trascorso il quale chi non ha poi concluso l'iter di quotazione anche delle proprie azioni perda il benefici di legge, visto che non si deve confondere il mezzo con il fine.

Ancora, l'in house providing: deve essere chiaro che è un impegno e non solo una scelta politico-amministrativa. Se si opta per questa opzione occorre essere poi conseguenti e operare bene, mantenere determinati livelli di efficienza, realizzare gli investimenti programmati e i soci devono agire da bravi clienti (pagando i debiti) e come azionisti scrupolosi (capitalizzando la società all'occorrenza). Dobbiamo limitarci a contenerne l'impatto sul mercato? Noi pensiamo che vada chiesto ai soci molto di più di quanto non preveda l'articolo 16 del Tusp e che il legislatore debba pretendere che chi opta per l'autoproduzione debba, pena decadenza, rispettarne le regole e lo spirito.

Infine, le regole di settore. Sono l'architrave su cui si reggono i servizi a rete e meritano la dovuta attenzione. È giunta l'ora di rivedere non solo il Tusp ma anche il Codice dell'Ambiente, così da adeguarne il contenuto ai tempi. In sostanza, il decreto di riordino non può essere considerato un punto di arrivo, o anche solo come scusa per distogliere l'attenzione dal mondo delle Utilities, occorre partire da lì per avviare un processo di riforma assai più ambizioso.