Amministratori

Primo via libera all’autonomia, blindati gli standard dei servizi

Consiglio dei ministri . I «livelli essenziali delle prestazioni» andranno finanziati prima del trasferimento di funzioni alle Regioni se la loro definizione aumenta la spesa. Costi extra coperti con tagli di altre voci<br/>

di Gianni Trovati

Non costa nulla, come si premura di precisare l’articolo 8 secondo il quale «dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»? Oppure può costare, come ipotizza l’articolo 4 rivisto nella versione di ieri quando evoca l’ipotesi in cui «dalla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»? Dipende.

Sugli effetti finanziari (e amministrativi) dell’autonomia differenziata, che ieri ha ottenuto il primo via libera della legge quadro in consiglio dei ministri in tempo utile per parlarne un po’ prima delle elezioni regionali del 12 febbraio, le certezze assolute sono confinate nel dibattito fra i partigiani del decentramento come leva per «l’efficienza» e i suoi nemici (tra i quali si annoverano anche ex tifosi) che temono la «spaccatura» dell’Italia. Il negoziato condotto dal ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli con le Regioni, gli alleati di maggioranza e il Quirinale che ha portato al testo esaminato ieri dal governo si è concentrato soprattutto sui «livelli essenziali» (Lep), cioè gli standard minimi di servizio da assicurare che diventano il presupposto indispensabile al trasferimento delle funzioni, e sul ruolo del Parlamento, che deve esprimere il parere (in 60 giorni con atto di indirizzo, precisa l’ultimo testo) sui decreti in cui si individuano gli standard di servizio e approvare a maggioranza assoluta dei componenti i disegni di legge a cui sono allegate le intese sul trasloco delle competenze (del resto lo impone l’articolo 116, terzo comma della Costituzione). Ma sugli effetti pratici del processo la realtà non offre indicazioni univoche: perché il risultato dipende, appunto, prima di tutto, da come verranno calcolati i Lep, cioè (come recita sempre il testo del disegno di legge quadro) «la soglia costituzionalmente necessaria» per «rendere effettivi i diritti civili e sociali» tutelati dalla Costituzione. Ci dovrà pensare entro quest’anno la Cabina di regia politica sul tema istituita a Palazzo Chigi, sulla base del lavoro della Commissione tecnica per i fabbisogni standard, come previsto dai commi 793 e seguenti dell’ultima legge di bilancio.

Prima di allora, precisa la legge quadro, non si potranno trasferire alle regioni «materie riferibili ai diritti civili e sociali», cioè in pratica tutte le competenze più importanti fra quelle regionalizzabili.

E proprio da questo meccanismo, come definito nel testo approvato ieri, arriva la risposta all’enigma iniziale. Perché se la fissazione dei Lep presuppone un aumento dei costi, le funzioni potranno essere trasferite alle Regioni «solo dopo l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie», che dovranno però essere «coerenti con gli obiettivi programmati di finanza pubblica». Tradotto: per aumentare la spesa per le funzioni da regionalizzare bisognerà tagliare altrove, in modo strutturale come strutturale sarebbe l’aumento di spesa perché i diritti costituzionali non sono a tempo determinato.

L’elenco delle materie trasferibili è fissato dall’articolo 117 della Costituzione. Si tratta dei temi che dal 2001, dopo la riforma del Titolo V targata centrosinistra che ha previsto anche l’autonomia differenziata in discussione oggi, sono finiti nel vortice della «legislazione concorrente» fra lo Stato, incaricato di fissare i principi generali, e le regioni che esercitano «la potestà legislativa».

La lista è eterogenea e comprende filoni come la sicurezza sul lavoro, la ricerca a supporto dei settori produttivi o l’ordinamento delle professioni, il credito territoriale, sport e beni culturali; ma anche materie che appaiono complicate da regionalizzare come «le grandi reti di trasporto e navigazione» o la «produzione, trasporto e distribuzione dell’energia» su cui il governo preme per un maggiore coordinamento europeo visti i limiti evidenziati dalla crisi nell’azione nazionale (figuriamoci regionale). Ma a completare il quadro interviene soprattutto l’istruzione, con i suoi 52,2 miliardi di spesa annua, aggiunta con la tutela dell’ambiente e la giustizia di pace al novero delle materie oggetto di possibili «forme e condizioni particolari di autonomia».

Toccherà alle regioni che lo vorranno (Veneto e Lombardia in testa, ovviamente, ma in fila ci sono anche fra le altre Emilia-Romagna e Toscana) negoziare con il governo l’elenco delle materie da trasferire, con un’intesa che secondo la legge quadro dovrà fare un doppio giro fra consiglio dei ministri, conferenza Unificata e Parlamento prima di trasformarsi in un disegno di legge da approvare a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere. Ma toccherà soprattutto al Mef esercitare sui profili finanziari un ruolo di controllo che la legge quadro gli assegna in via preventiva (parere sulla proposta di intesa prima della delibera in consiglio dei ministri) e in corso d’opera con i controlli annuali nella commissione paritetica governo-regione. E va detto che fin qui nessuna proposta di accordo fra quelle avanzate negli anni, prima di decidere di partire dalla legge quadro, ha ottenuto da Via XX Settembre un parere positivo.

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