Urbanistica

Stadi, imperativo fare spazio agli investitori istituzionali

Le novità introdotte con il Dlgs 38/2021 sugli impianti sportivi sono un'opportunità da cogliere per promuovere nuovi attori

di Daniele Spinelli

Il Dl 3 gennaio 1987, n. 2, convertito dalla legge 6 marzo 1987, n. 65, è stato il primo provvedimento in materia di progettazione e realizzazione di stadi: il Decreto, in sintesi, dettava una disciplina speciale per l'evento "Italia 90". Il quadro regolatorio ha quindi subito modifiche ed integrazioni, ad opera di plurimi provvedimenti – i più rilevanti l'art. 62, Dl. 24 aprile 2017, n. 50 e l'art. 1, co. 304-305, L. 27 dicembre 2013, n. 147 -, i quali tuttavia, nel lessico comune, sono unitariamente considerati sotto la riassuntiva denominazione di "Legge Stadi".

Le nuove norme erano (o, per meglio dire, dovevano essere) anch'esse funzionali al rilancio delle infrastrutture sportive del paese, per renderlo coerente al suo elevato ranking sportivo: ad esempio, rispetto allo schema classico delle operazioni Partenariali, sotto il profilo della remunerazione degli investimenti, la norma (art. 62, D.L. 50/2017) risultava molto permissiva consentendo la costruzione di immobili con destinazioni d'uso diverse da quella sportiva (complementari o funzionali al finanziamento o alla fruibilità dell'impianto) con la sola esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale. Se si considera che fra il 1993 ed il 2014, le società sportive hanno incassato dagli operatori televisivi oltre 11,5 miliardi di euro, era lecito attendersi il deciso avvio di molte iniziative.

L'accadimento dei fatti ha raccontato invece un'altra storia: bilanci dei club in profondo rosso, realizzazioni di stadi che si contano sulle punta delle dita. Se questa evidenza suscita più di un dubbio, su come e dove nel settore siano state allocate le risorse, dall'altro pone il problema di cosa fare, considerando che la perdurante assenza di progetti realizzabili contrasta con l'ampiezza dei bisogni. In realtà, ancora una volta è la realtà a mostrarsi auto-esplicativa: anche volendo scordare gli insuccessi, il capitale presente nei bilanci dei clubs risulta non solo insufficiente per gli investimenti ma è anche di gran lunga inferiore alla loro esposizione debitoria, per cui lo stadio, più che un'opportunità di ricavo, rischia di trasformarsi in una definitiva spallata verso il crac. E tuttavia, sarebbe fuorviante vedere nelle società sportive, il solo difetto che è alla base di tutto. Non si tratta nemmeno di trasformarli in qualche cosa di diverso, in soggetti più freddi e raziocinanti, maggiormente ispirati al modello imprenditoriale. E non solo perché esiste una componete "emotiva" del pallone che è comunque essenziale affinchè la "giostra" continui a girare, ma anche perché un maggior rigore contabile da solo non basterebbe.

In realtà, è il tradizionale schema "soggetti pubblici - costruttore - società sportiva e banca" a non essere più il giusto paradigma, innanzitutto per ragioni finanziare: le risorse Pnrr non sono elevate (solo 700 milioni di Euro al comparto), i bilanci pubblici sono già fortemente indebitati, le imprese di costruzione sottocapitalizzate, i criteri di Basilea III per il credito bancario o Solvency II per le assicurazioni, impongono vincoli stringenti che asciugano le linee di credito. Per questo, in linea di principio, nessuno dubita che i processi di investimento dovranno inserirsi dentro nuove dinamiche, promuovendo attori diversi: ma se la prospettiva è degna del massimo interesse, non è facile da mettere in pratica, anche perché richiede interventi coordinati a diversi livelli.

Così, ad esempio, tutti convergono sul fatto che sia diventato quasi irrinunciabile l'attrarre nel settore i grandi capitali privati, ma molteplici aspetti di contesto -comportamenti, norme, vincoli- non corrispondo ancora ai loro caratteri, ponendosi dunque come rilevanti barriere al loro ingresso. Non stupisce, pertanto, che i soggetti specializzati nell'investimento e nel finanziamento delle infrastrutture siano, nel nostro paese, delle realtà del tutto marginali, al pari degli investitori istituzionali, che pure potrebbero diventare anch'essi una variabile chiave nel settore, considerando gli elevati rischi, nell'attuale congiuntura geoeconomica, di mantenere tutto il risparmio previdenziale su impieghi cartolari di breve termine.

A ben vedere, è quasi paradossale che nel nostro pase questi attori siano perlopiù invisibili alle dinamiche in campo, quando nel mondo, in specie quelle di matrice anglosassone, hanno contribuito non solo a cambiare il concetto stesso di stadio, ma hanno stabilito, grazie alle sinergie con i club, nuove gerarchie anche in campo sportivo. Un rapporto di causa effetto che dovrebbe far riflettere sul senso e l'entità deicambiamenti, facendoci chiedere, con crudo realismo, se i clubs possano davvero sopravvivere senza queste "congiunzioni" che, nei loro bilanci gonfi di plusvalenze, sono l'ultima ancora di salvataggio. Ecco perché, far sì che le infrastrutture sportive italiane diventino un asset class stabilmente e significativamente presente nei portafogli di questi attori, deve porsi come un vero e proprio obiettivo di policy. E non soltanto per le ingenti risorse che potrebbero impiegare, con tutto ciò che questo vuol dire in termini di sostenibilità del settore, di competitività del nostro calcio, di qualità delle infrastrutture. Ma anche perché, quali investitori puri, si tengono lontani dai conflitti d'interesse: se infatti i costruttori hanno un chiaro interesse a guadagnare dalla costruzione - non per niente quasi mai restano nella gestione- gli operatori finanziari sono interessati ad ottimizzare il rendimento dell'intera operazione dell'investimento, collocandosi, fatalmente, sul punto di convergenza tra interesse pubblico e privato: non per nulla per queste operazioni si è soliti parlare di Ppp Sociali od istituzionali.

Il legislatore, in effetti, sembra proprio spingersi in questa direzione con il recente D.Lgs. 38/2021 che, in attuazione dell'articolo 7 della legge 8 agosto 2019, n. 86, ha compiuto un‘opportuna ricognizione di tutta la precedente disciplina, aggiornandola, ed in larga parte abrogandola, a "decorrere dal 1° gennaio 2023" (art.12-bis, comma 1). Difficile, infatti, non leggere nella l'art. 4, comma 1, nella parte in cui detta la disciplina relativa ai Proponenti, un riflesso del cambio di prospettiva a cui si è fatto cenno. Il legislatore ha inserito nella formulazione del testo – di una norma per il resto del tutto identica al precedente art. 62, D.L. 50/2017 – un semplice ma significativo avverbio: "anche": la nuova norma così recita: "il soggetto che intende realizzare l'intervento presenta al Comune o al diverso ente locale o pubblico interessato, anche di intesa con una o più delle Associazioni o Società sportive dilettantistiche o professionistiche utilizzatrici dell'impianto (…)".

L'avverbio "anche", in buona sintesi, postula l'ipotesi di un "Proponete non sportivo" favorendo dunque l'ingresso di un equity autonomo da quello dei clubs: in particolare, si prevede che tra il Proponente e la società sportiva sussista un mero Accordo relativo all'uso dell'impianto sportivo ed un limitato utilizzo commerciale, con la conseguenza che i Fondi interessati saranno più liberi nelle loro decisioni d'investimento e, dunque, potenzialmente più disponibili ad investire. Ma una norma, da sola, non basta per decidere ed agire, perché è nell'insieme delle regole che occorre mescolare logiche pubbliche e logiche finanziarie comprendendo a fondo la grammatica di alcuni meccanismi: quelli che regolano il rapporto tra risparmio gestito e investimento, quelli legati al rapporto tra rischio e rendimento nelle singole operazioni (e.g. greenfield vs value added vs operating) quelli dipendenti dalla valorizzazione dell'idoneità ("eligibility") dei progetti, per porla in linea con il profilo di risk appetite degli investitori e non più soltanto alla mera bancabilità.

Occorre insomma modificare la percezione stessa dei rispettivi interessi per farli dialogare invece che fronteggiarsi dentro logiche che producono dispersione e immobilismo: il che significa approcci metodologici nuovi, strumenti flessibili ed idonei, criteri di spesa pubblici che non frappongano ostacoli alla generazione di reddito, norme urbanistiche che assecondino i nuovi modelli di business - lo Stadio non più solo contenitore di eventi sportivi ma produttore di intrattenimento e, financo, di ospitalità- regole procedurali che superino definitivamente la tradizionale cultura appaltistica che le informa. Il discorso si fa dunque complicato, perché non passa solo da una pur necessaria innovazione finanziaria ma richiede un'azione riformatrice più ampia che implica di far cambiar pelle al rapporto stesso tra risorse private e decisioni pubbliche, tra imprenditorialità libera e attività legislativa.

Vaste programme avrebbe detto qualcuno, ma è pur vero che non siamo all'anno zero: ad esempio molte sono le sperimentazioni interessanti nell'ambito dei Partenariati pubblici e privati, settore nel quale l'Amministrazione pubblica mostra maggiormente di volersi affrancare dal suo universo "solitario" di tipo amministrativo. Il nuovo D.lgs. 38/2021 offre un'occasione formidabile per allargare ulteriormente l'orizzonte verso il nuovo che avanza. Cogliere l'opportunità e raccoglierne la sfida, è il solo modo per fa sì che la realizzazione di stadi divenga, finalmente, una realtà da raccontare.

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