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Il rinnovo del contratto crocevia d’autunno per il mondo della scuola

Con i fondi a bilancio si può arrivare a 120 euro lordi in più al mese per i docenti. Sindacati divisi, nuovo incontro all’Aran dopodomani

di Eugenio Bruno e Claudio Tucci

L'autunno non è mai un periodo facile per la scuola. Con molte cattedre tradizionalmente ancora scoperte, soprattutto sul sostegno dove le nomine in deroga di docenti specializzati in genere si susseguono fino alle vacanze di Natale. E da quando c’è il Covid lo è ancora di meno. Figuriamoci quest’anno che la prima campanella suonerà a pochi giorni dalle elezioni del 25 settembre e che in molti istituti le lezioni si fermeranno quasi subito, proprio a causa delle operazioni di voto. Ma il clima pre-elettorale si fa sentire anche sulle regole – minime e soft, come raccontiamo a pagina 9 – per il rientro tra i banchi. Oltre che sull’esito, al momento incerto, della trattativa sul contratto. Una partita che è seguita con il fiato sospeso da oltre 1,1 milioni di lavoratori del settore in attesa del rinnovo da oltre tre anni.

Il governo uscente sta provando ad accelerare, anche per dare un segnale di attenzione al mondo della scuola prima del voto: dopodomani è previsto un nuovo incontro all’Aran. L’esito non è facile da prevedere visto che una parte del sindacato è propensa a discutere, mentre un’altra no perché giudica insufficienti le risorse sul tavolo. Se sarà ancora fumata nera, molto probabilmente, saranno il prossimo esecutivo e la prossima legge di bilancio a siglare il closing atteso da quando a Palazzo Chigi c’era Giuseppe Conte I, e a Viale Trastevere albergava il leghista Marco Bussetti. Già all’epoca la promessa alla categoria era quella di un aumento a “tre cifre”; a rinnovarla ci hanno pensato tutti i successivi inquilini dell’Istruzione (Lorenzo Fioramonti, Lucia Azzolina, Patrizio Bianchi) con tanto di risorse appostate in manovra, e arrivate complessivamente a due miliardi.

La trattativa, ripartita all’inizio dell’estate, si è poi fermata con le dimissioni di Mario Draghi. Eppure i fondi per arrivare oltre la soglia psicologica (e politica) dei cento euro c’erano. All’ultima riunione a fine luglio all’Aran si è fatto il conto (provvisorio) delle possibili risorse aggiuntive - rispetto ai due miliardi di cui sopra, ndr - che si potrebbero dirottare sul Ccnl. Nella lista, per i docenti, si è parlato del “fondo Fedeli” per la valorizzazione della professione (240-270 milioni) e dei quasi 90 milioni sul trattamento accessorio. Per il personale tecnico-amministrativo (gli Ata) ci sono i circa 37 milioni per i nuovi ordinamenti professionali, e i 14,8 milioni sull’accessorio. Il costo dell’elemento perequativo, introdotto con il precedente rinnovo e già anticipato negli stipendi del triennio, è di circa 210 milioni. Ebbene, secondo una prima stima, con questo rabbocco di risorse, il rinnovo del contratto porterebbe in dote agli 850mila docenti italiani 123 euro medi pro capite lordi (75-80 netti) e 90 euro medi pro capite lordi per i 200mila Ata (60-65 netti).

Per la cronaca, il precedente Ccnl firmato da Valeria Fedeli nel 2018 ha portato a un incremento medio per i docenti di 96 euro e a 84,5 euro per gli Ata. All’epoca però non eravamo in piena emergenza energetica con un’inflazione che erode le buste paga, nel pubblico come nel privato, mese dopo mese. E non era emersa con forza, come invece è avvenuto nei mesi scorsi, la richiesta dei sindacati di portare gli stipendi dei docenti allo stesso livello delle altre funzioni centrali della Pa. Aumentandole cioè di oltre 300 euro lordi al mese. Ma è una proposta difficilmente realizzabile nell’arco di una sola tornata contrattuale e anche le ipotesi circolate nelle scorse settimane di rimpinguare ancora la dote per il rinnovo attingendo a una parte degli 800 milioni del Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (Mof) non è così semplice.

A ogni modo, il tema esiste e ne sono consapevoli anche i partiti, in primis il Pd, che hanno fatto più di un accenno agli stipendi degli insegnanti da migliorare. Sul punto i numeri sono impietosi: da noi la paga d’ingresso di un insegnante oscilla tra i 22 e i 29mila euro annui mentre altrove può arrivare fino a 80mila euro. Con l’aggravante che in cattedra una carriera non esiste, al punto che per guadagnare il 50% in più bisogna accumulare 35 anni di servizio.

In questo contesto il prossimo rinnovo non rappresenta un banco di prova solo dal punto di vista economico. Ma offre, almeno sulla carta, una chance per innovare l’intero settore. Almeno sotto tre punti di vista, che rappresentano altrettanti nodi storici della scuola italiana. Cominciamo dalla formazione degli insegnanti, resa obbligatoria dalla legge 107, ma spesso “dribblata” dai diretti interessati. In base alle ultime leggi approvate questa estate il Ccnl in arrivo dovrà declinare il nuovo, e innovativo, sistema di formazione professionale dei docenti. Vale a dire corsi triennali che, se superati, danno diritto ad una “una tantum” di carattere accessorio tra il 10 e il 20% del trattamento stipendiale.

Formare di più e meglio gli insegnanti può significare anche ammodernare la didattica che, nonostante l’esperienza emergenziale della Dad, è ancora ferma alle vecchie lezioni frontali. E non è un caso che gli ultimi rapporti Invalsi e Ocse-Pisa abbiano evidenziato un progressivo peggioramento delle competenze dei nostri studenti. Oltre al fatto che, salvo rare eccezioni, oggi a scuola i ragazzi si annoiano (dispersione e abbandoni sono purtroppo tornati a salire con il Covid e la scarsa qualità della Dad), in un caso su due si esce dalle aule senza le competenze di base in italiano, matematica e (in parte) inglese. In alcune aree del Sud e nelle realtà familiari svantaggiate, la situazione è peggiore. Da qui l’aspirazione a una forte spinta su innovazione e formazione, anche digitale, dei nostri insegnanti, grazie anche agli 800 milioni del Pnrr con i quali si punta coinvolgere, partendo già in autunno, 650mila prof in formazione 4.0 nei prossimi cinque anni.

Il secondo elemento di rinnovamento affidato al Ccnl è l’avvio di un primo percorso di carriera per gli insegnanti. A prescindere dalla fine che farà la figura del “docente esperto” (su cui è già partito il fuoco incrociato del Parlamento) - e a prescindere anche dalle bacchettate che l’Ue da oltre 20 anni ci riserva sul punto e dai tentativi, tutti naufragati, da Berlinguer in poi - come abbiamo visto la retribuzione (bassa) dei docenti cresce (poco) solo per anzianità di servizio, cioè per il tempo trascorso in cattedra. Tutto ciò svilisce il lavoro dei professori e ne fiacca la reputazione. Eppure già oggi non tutti i docenti hanno gli stessi compiti e le medesime funzioni. Ecco allora che una differenziazione salariale (e un po’ di merito) consentirebbe di rendere più attraente la professione per i giovani (oggi l’età media in cattedra supera i 50 anni) oltre che contribuire a migliorare l’offerta formativa complessiva e il coinvolgimento degli alunni.

Il terzo e ultimo aspetto da disciplinare con il nuovo contratto è come conciliare la tendenza alla mobilità dei prof con la continuità didattica per i ragazzi. Anche quest’anno, nonostante l’ennesima modifica normativa (ci si poteva spostare dopo l’anno di prova), hanno ottenuto il trasferimento circa 50mila insegnanti, più migliaia di assegnazioni provvisorie accordate per esigenze personali o familiari. Si tratta di un “valzer” che studenti e famiglie sperimentano ogni anno, spesso fino all’inverno, con gravi ricadute sugli apprendimenti. Insomma ce n’è abbastanza per auspicare una soluzione definitiva che tuteli in un colpo solo docenti e studenti. A governo (quale che sia) e sindacati il compito di trovarla

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