Fondo di coesione, rebus su 6 miliardi a rischio taglio
In corso la ricognizione dei progetti in ritardo e quindi a rischio definanziamento
«Come sottolineato da una recente analisi comparativa della Corte dei Conti Europea, la concomitante attuazione del Pnrr con gli interventi della politica di coesione dell’Ue, fino al 2026, consente agli Stati membri di scegliere se finanziare gli investimenti utilizzando i fondi dell’Rrf (Recovery and resilience facility, ndr) o quelli della politica di coesione». Questo passaggio della recente Relazione del governo sui fondi di coesione spiega bene le grandi manovre in corso per spostare i progetti del Pnrr che risultano più in ritardo su coperture dei fondi di coesione.
Si gioca tutto sui differenti termini per chiudere i progetti e spendere le risorse (giugno 2026 per il Pnrr e 2029 per i fondi Ue di coesione 2021-2027), come ha ribadito ieri il ministro per gli Affari Ue, le politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, in un’audizione svolta presso le commissioni congiunte competenti di Camera e Senato. Fitto ha poi spiegato che sul Fondo nazionale di sviluppo e coesione resta l’incognita dei 6 miliardi che con il Dl aiuti di maggio 2022 erano stati anticipati per far fronte all’aumento dei costi delle materie prime negli appalti pubblici.
Lo schema dei vasi comunicanti Pnrr-coesione è anche alla base della preparazione del piano REPowerEu che il governo deve presentare alla Commissione Ue entro il 30 aprile con interventi sulle infrastrutture energetiche e con incentivi alle imprese per aumentare l’efficienza energetica. Si tratta del capitolo integrativo del Pnrr che, ha spiegato Fitto, si sta definendo anche sulla base di incontri con le partecipate statali (Eni, Enel, Snam, Terna), con le autonomie locali, le associazioni di impresa e i sindacati.
Il ministro ha ripercorso i capitoli della Relazione sui fondi di coesione 2014-2020 che era stata presentata in consiglio dei ministri a metà febbraio. Una rapida rilettura per sottolineare i fallimenti nelle performance di spesa, con i rischi di disimpegno a fine 2023 ribaditi anche in un dossier del Servizio studi della Camera, appena ultimato, in cui si ricorda che i pagamenti da rendicontare entro il 31 dicembre di quest’anno ammontano a oltre 29 miliardi, considerando anche il cofinanziamento nazionale, di cui quasi 20 miliardi di risorse europee. È il risultato di percentuali scadenti: sommando fondi strutturali (Fse e Fesr), il relativo cofinanziamento nazionale e il Fondo sviluppo e coesione (nelle sue due articolazioni Poc, cioè Piani operativi complementari, e Psc, cioè Piani sviluppo e coesione) alla fine di ottobre 2022 i pagamenti 2014-2020 erano fermi al 34%. Su 126,6 miliardi ne sono stati spesi solo 46,1 mentre, al netto degli interventi di emergenza per il Covid, si tratta di 36,5 miliardi su 116,2 (31,5%).
Da Fitto è poi arrivato un ulteriore riconoscimento della profonda crisi d’identità del Fondo per lo sviluppo e la coesione (fondo statale) che è stato progressivamente prosciugato scendendo da 68,8 miliardi a poco meno di 50 miliardi a fronte di tagli e dirottamento verso altre esigenze. A tutto questo si aggiunge la mina di circa 6 miliardi che erano stati anticipati per far fronte all’aumento dei costi negli appalti pubblici e che potrebbero trasformarsi in tagli reali a carico dei progetti in maggiore ritardo, che non hanno cioè maturato obblighi giuridicamente vincolanti. Su questo fronte il ministero ha avviato una ricognizione, sulla base di una norma specifica inserita nel Dl Pnrr all’esame del Senato.
Secondo Fitto solo definita questa partita, si potrà procedere all’«auspicabile sblocco» delle risorse Fsc per il Sud (22,5 miliardi) che attendono ormai da nove mesi la delibera finale del Cipess. Un punto su cui ancora una volta, ieri in audizione, è tornato in pressing il deputato campano del Pd Piero De Luca.