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Didattica e accesso, i nodi degli atenei

In attesa che un nuovo governo delinei la strategia di sviluppo del sistema Università e Ricerca, vale la pena di riconsiderare alcuni dati di fondo. A partire dal picco del 2009 il sistema è stato seriamente definanziato, con una traiettoria negativa che invertita solo da poco, e solo parzialmente. Il calo dei trasferimenti statali si attesta sull’11% in cifra assoluta, ma è vicino al 20% in termini reali. Anche se i tagli hanno coinciso con una delle peggiori crisi economico-finanziarie del dopoguerra, questa è comunque una pessima notizia, soprattutto in un momento in cui si avverte in modo sempre più acuta la necessità di investire su istruzione e ricerca per far fronte, tra l’altro, a una trasformazione epocale delle forme stesse del conoscere, per non dire del lavoro e dell’industria.

La popolazione studentesca

Le risorse contano, certamente, ma conta soprattutto spenderle bene, il che significa perseverare nel superamento della spesa storica, e nella valutazione. È illusorio credere che aumentare l’entità complessiva dei trasferimenti pubblici comporti necessariamente più laureati o un’università che funziona meglio, perché i fattori in gioco sono molti e sono complessi. Il numero degli immatricolati è diminuito di quasi un quarto dal record del 2003 al 2015, ma il 22% si è perso tra il 2003 e il 2009, cioè proprio mentre i finanziamenti continuavano a crescere, quasi del tutto assorbiti, peraltro, da costi stipendiali che lievitavano secondo una dinamica fuori controllo. Le immatricolazioni di inizio secolo, d’altronde, erano aumentate a causa del passaggio dalla vecchia laurea quadriennale a quella triennale di nuovo ordinamento, che aveva portato e soprattutto riportato negli atenei un buon numero di studenti maturi che avevano interrotto gli studi o mai avevano pensato di intraprenderli. Nello stesso arco di tempo il numero complessivo dei diciannovenni è invece sceso del 4%, mentre è cresciuto dal 2,3% (2002) all’8,6% (2015) il numero di quelli stranieri, il cui tasso di passaggio all’università, circa un terzo di quello degli italiani, è tuttora molto, troppo basso. Ancora, dal 2008 si assiste poi a una crescita pressoché costante della percentuale di liceali che si iscrive all’università, di contro a un calo brusco e costante dei diplomati degli istituti tecnici e professionali.
Se è vero che tra il 2000 e il 2016 la percentuale di laureati nella popolazione tra 25 e 34 anni si è quasi triplicata dal 10% al 26%, e negli ultimi anni il numero degli immatricolati è tornato a salire (nel 2015 superava di quasi il 5% il livello minimo raggiunto nel 2012), restiamo lontani dalla media europea. Il numero dei fuori corso è ancora sostenuto, e continua a preoccupare l’alto numero di abbandoni o cambi di corso, segno che manca un sistema efficace di orientamento. La flessione delle immatricolazioni e gli abbandoni, poi, sono più frequenti quanto più basso è il voto conseguito alla maturità. Le opzioni per cambiare rotta esistono. Si possono potenziare percorsi di livello terziario con caratteristiche diverse da quelli accademici tradizionali, mentre per questi ultimi si possono creare, come avviene in molti Paesi, robusti percorsi di rafforzamento delle competenze subito dopo l’immatricolazione, anche prevedendo, ove necessario, un anno integrativo preliminare: un’opzione di gran lunga preferibile, da tutti punti di vista, all’abbandono o a un estenuante fuoricorso. E anche sulla questione degli studenti maturi non ci si può limitare a contemplare il declino. A inizio secolo molti, all’insegna del motto “laureare l’esperienza”, erano stati incoraggiati a iscriversi da forme troppo generose e indiscriminate di riconoscimento di crediti non accademici. All’abuso, giustamente eliminato, non si è però sostituita una seria politica di innalzamento delle competenze ben oltre il tradizionale appuntamento post-diploma, che resta una necessità urgente.
Si tocca insomma con mano uno degli aspetti maggiormente problematici del sistema, e cioè il fatto che tranne misure episodiche non si siano intrapresi una radicale revisione del diritto allo studio di tutto il sistema terziario una riflessione ad ampio raggio sull’organizzazione e l’innovazione della didattica, un riesame delle politiche di accesso lungo l’arco della vita. È da qui che si deve ripartire se si vuole impostare su basi concrete e sostenibili il futuro dei nostri atenei e di tutte le istituzioni post-diploma. Oltre ai soldi, servono anche priorità chiare, e ambiziose. Il dibattito continua invece a essere prevalentemente concentrato su esigenze e aspirazioni del corpo docente. Anche se alcune sono doverose e legittime, lo stato di salute del sistema non si può giudicare (solo) dal numero dei posti messi a concorso.

Il problema del Sud

Il Meridione partecipa di questi elementi di crisi in modo assai più intenso e problematico del resto d’Italia: il 20% di calo degli immatricolati tra 2002 e 2015 è dieci volte superiore a quello registrato al Nord (-2%), che peraltro registra un salto nettamente positivo (+17,6%) se si prendono in considerazione solo gli immatricolati di età inferiore ai 20 anni. Anche in questo caso esiste un problema di livello complessivo delle risorse, e nulla impedisce di pensare a interventi territoriali specifici, per esempio sul diritto allo studio, purché non si facciano passi indietro sul meccanismo di allocazione basato sul costo standard, che riduce lo squilibrio storico a danno degli atenei più giovani. Molti di questi sono al Sud: il costo standard favorisce, e favorirebbe ancora di più se applicato integralmente, questa parte del paese, specie se tutti i parametri restassero completamente al riparo da qualunque decisione estemporanea di questo o quel ministro e si consentisse quindi una programmazione pluriennale affidabile (P. Sestito – R. Torrini, Rivista economica del Mezzogiorno 2017).
Non è rinunciando a una distribuzione trasparente e razionale dei fondi, e ancora meno alla valutazione della ricerca, che si possono risolvere i problemi dell’università, o anche solo quelli di una parte di esse. Più è alto il livello scientifico degli atenei, più facilmente si può contrastare la fuga degli studenti dalle regioni del Sud e magari incentivare la mobilità del corpo docente. Nelle università del Sud -lo ha dimostrato proprio l’ultimo esercizio di Valutazione della qualità della ricerca - gli esempi positivi da cui partire non mancano.

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