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La corsa senza freni della spesa pubblica: +31,9% sul 2019, picco al 59% del Pil

L'aumento strutturale delle uscite, che saranno al centro del nuovo Patto Ue, è prodotto soprattutto da pensioni e interessi sul debito. La sanità cresce ma meno del prodotto, dopo i contratti 2019/21 stasi per i dipendenti Pa

di Gianni Trovati

Le polemiche intorno alla manovra si sono infiammate su Pos e limiti al contante. Ma basta alzare un po’ lo sguardo per capire che il governo dovrà affrontare problemi più ampi e impegnativi, destinati a condizionarne pesantemente l’azione anche dopo che la legge di bilancio sarà stampata sulla Gazzetta Ufficiale. La questione numero uno si chiama spesa pubblica. E si incarna in un aumento strutturale generato dalla crisi pandemica e proseguito con quella energetica. La corsa viaggia a ritmi molto più veloci rispetto a quella del Pil nominale, che pure viene gonfiato dal lievito dei prezzi, e stacca sempre più anche il supporto offerto dalle entrate tributarie. Con una dinamica del genere, le scelte future su pensioni, sanità, pubblico impiego e più in generale sul ruolo dello Stato nell’economia non saranno semplici. Lo dicono i numeri.

I principali, elaborati nelle tabelle qui a fianco sulla base dei dati presenti nelle ultime Nadef, nel Dpb e negli allegati tecnici alla legge di bilancio, parlano un linguaggio piuttosto chiaro. A partire dal punto di riferimento più generale, quello della «spesa pubblica autorizzata» a inizio anno da ogni legge di bilancio. Fra 2019 e 2021 la sua salita è stata importante ma si è giocata nella fascia che va da 850 a 900 miliardi di euro. Nel 2022 è salita a 1.094 miliardi, mentre la manovra ora all’esame (piuttosto disattento in verità, almeno guardando l’assenteismo di deputati e senatori alle audizioni) delle commissioni Bilancio fissa per l’anno prossimo la cifra di 1.184 miliardi di euro. Come da tradizione, si prevede poi una discesa per gli ultimi due anni del triennio coperto dal preventivo. Ma anche con questa flessione non si va mai sotto i 1.120 miliardi di euro.

Nel confronto fra dati omogenei, la spesa autorizzata cresce quindi del 31,9% rispetto al 2019, con un picco del +38,9% nel 2023 dovuto anche a una gobba nei contributi agli investimenti legata alla gestione dei fondi europei. Al netto di questa oscillazione, si tratta comunque di un incremento molto più ampio rispetto a quello prodotto dall’accoppiata di crescita e inflazione sul Pil nominale: che nel 2023 si attesta a un +11,9% rispetto al 2019, e nelle previsioni della Nadef aggiornata arriva a un +20,2% nel 2025. Risultato: la spesa pubblica, che nel 2019 già arrivava al 47,6% del Pil, oscillerà nei prossimi tre anni nei prossimi anni fra il 52,3% e il 59,5%: non sono esattamente numeri da austerità neoliberista.

Ma etichette politiche a parte, l’indicazione più preoccupante è data dalla spinta prodotta da voci che appaiono in larga parte incomprimibili. Le pensioni, anche dopo il taglio duro portato dalla manovra sulle rivalutazioni degli assegni medi e alti, arrivano l’anno prossimo a un passo dai 320 miliardi per attestarsi nel 2025 a 352,2 miliardi, con una crescita del 28,1% sul 2019. Complici le proiezioni sui tassi e l’effetto dell’inflazione sui titoli indicizzati, la manovra mette alla voce «interessi passivi e altri oneri finanziari» 97,9 miliardi nel 2025, un punto di Pil in più rispetto ai livelli pre-Covid. E la sanità, che pure viaggia nei prossimi anni fra i 15 e i 20 miliardi sopra la spesa raggiunta alla vigilia della pandemia, fatica parecchio a tenere il passo dei fabbisogni. Per le spese di funzionamento della Pa («consumi intermedi») la spending è declinata come sempre al tempo futuro: quest’anno si arriva al picco di 166,9 miliardi (+13,2% sul 2019), poi si dovrebbe scendere verso i 163-165 miliardi a seconda degli anni. Tra i costi c’è poi il rifinanziamento del debito pubblico, che nel 2023 vede scadenze per circa 406 miliardi e che ovviamente non può essere messo in discussione. L’unico capitolo che rema in direzione contraria è rappresentato dagli stipendi dei dipendenti pubblici, che crescono per il rinnovo contrattuale 2019/21 appena chiuso, si mantengono stabili nel 2023 per il peso del miliardo (1,8 miliardi in realtà per tutta la Pa) dell’una tantum ma poi declinano. A patto, ovviamente, di non mettere mano al contratto del 2022/24, che come infatti ha spiegato il ministro per la Pa Paolo Zangrillo nell’intervista di ieri a questo giornale potrà tornare sul tavolo solo con una robusta ripresa economica dopo la soluzione di guerra in Ucraina e crisi energetica.

Un quadro come questo non è naturalmente figlio dell’ultima legge di bilancio, ma nasce da dinamiche più strutturali e soprattutto costruisce una gabbia rigida per tutte le prossime scelte di politica economica. Gabbia che sarà rinforzata anche dall’evoluzione del Patto di stabilità Ue, che nelle nuove regole in discussione giusto in queste settimane per la traduzione nella normativa destinata a entrare in vigore dal 2024 concentrerà i propri vincoli proprio sulle spese, a partire da quelle primarie (al netto del debito) che in teoria possono essere modificate dalle scelte discrezionali dei governi. Scelte discrezionali ma complicatissime, perché la retorica della «lotta agli sprechi» ha mostrato come i tagli generici che non colpiscono interessi o esigenze specifiche hanno il difetto di non esistere: i numeri della spending review collegata al Pnrr, che nel 2023 mettono in calendario risparmi per 800 milioni, lo 0,067% della spesa pubblica autorizzata, sono una conferma chiara del problema.

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