Il CommentoPersonale

Lavoro agile, fra tetti e soglie il default dell’organizzazione

di Francesco Verbaro

Nel lavoro pubblico tornano «ordinarie» le prestazioni in presenza. I monitoraggi più attendibili portano ad affermare, tranne che in rare esperienze, che in pandemia con il lavoro da remoto si è avuto un semplice distanziamento fisico, per ridurre i focolai infettivi, ma non un mantenimento o incremento dei servizi. Da qui il superamento delle percentuali e l’indicazione di presupposti puntuali per consentire di spostare i lavoratori in remoto. Comincia a essere chiaro che il lavoro agile non è un diritto del lavoratore, ma nasce per introdurre flessibilità in risposta alle esigenze organizzative di competitività e a quelle personali di conciliazione fra tempi di vita e di lavoro.

Se nel settore privato il lavoro agile è stato attivato innanzitutto per aumentare la competitività, nel pubblico è stata posta l’attenzione alla qualità della vita del lavoratore. Le due finalità possono coesistere, ma a monte devono esserci le esigenze organizzative del datore di lavoro. Soprattutto nel pubblico. Il lavoro da remoto deve consentire di aumentare la produttività. Nel caso della Pa, il datore di lavoro deve verificare ciò che è remotabile, quanto e come (telelavoro o lavoro agile). Non deve essere un problema di percentuali. Né può essere uno strumento riservato ai soggetti fragili. Deve essere, una volta tanto, un tema gestionale. Salta subito agli occhi la differenza tra pubblico e privato: nel pubblico si parla di tetti, nel privato di flessibilità, produttività, risparmio dei costi, benessere del lavoratore. Da un lato l’attenzione al dato formale, dall’altro a quello sostanziale. Servirebbe dare spazio alle prerogative datoriali. Ma nella Pa il datore di lavoro è debole e manca quasi sempre un’organizzazione fondata su obiettivi. Manca la capacità di utilizzare la discrezionalità. t

Lo si è visto con la contrattazione integrativa, il lavoro flessibile, le partecipate. Da qui la reazione del legislatore di normare ogni spazio. Il rientro imposto con una pioggia di limiti sembra nascere dalla sfiducia in dipendenti e dirigenti. Il settore pubblico è abituato a normare la flessibilità, fino ad annullarla. La fiducia, il lavoratore, dovrebbe conquistarla con i risultati e non con le timbrature, ma questo richiede da parte della dirigenza la capacità di organizzare il lavoro in maniera attenta non solo al rispetto della forma. È evidente che non tutte le Pa sono uguali, per cui lo smart working si deve attivare partendo dalla singola amministrazione e dalla domanda del dipendente.

Lo spiega la bozza di contratto delle Funzioni centrali: «Il lavoro agile è una delle possibili modalità di effettuazione della prestazione lavorativa per processi e attività di lavoro, previamente individuati dalle amministrazioni, per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità». Si può effettuare la prestazione da remoto se ci sono condizioni ovvie che la bozza di decreto del ministro Brunetta ben sintetizza per gli amanti delle “guide” alle cose evidenti: non pregiudicare o ridurre la fruizione dei servizi agli utenti; dotarsi di strumenti tecnologici idonei a garantire la più assoluta riservatezza dei dati; responsabilità al dirigente.

Non va dimenticato che ci sono condizioni organizzative altrettanto banali e importanti: processi gestibili da remoto e quindi informatizzati; dipendenti con competenze digitali medie se non elevate; cybersecurity, device adeguati e un’organizzazione fondata per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo. Può essere allora il lavoro agile, apprezzato dal personale, la spinta gentile per cambiare il modo di lavorare nella Pa?