Fisco e contabilità

Corte conti, i bilanci chiusi non si toccano

Principio affermato da una sentenza delle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale

di Ettore Jorio

Basta giocare con i bilanci. I principi di continuità e veridicità vanno rigorosamente rispettati. É quanto affermato da una interessante sentenza delle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale della Corte dei conti: la n. 16/DELC/2022 (rel. D'Ambrosio). Il giudice contabile non lo manda a dire. Lo afferma con lampante chiarezza e fermezza. I bilanci chiusi non si toccano. Non si riaprono, se non per preponderante interesse pubblico e non già per consentire a qualche dirigente furbastro di rimediare a gestioni errate ovvero di fare una bella figura con il decisore politico di turno.

Una sentenza da diffondere in tutta la Pa
Una regola ineludibile quella che disciplina il regime del rendiconto e in generale dei documenti contabili di un ente. Così come è imprescindibile l'imputazione in bilancio di fatti gestori da registrare assolutamente in contabilità all'atto del loro verificarsi e non retroagirli all'esercizio precedente perché così fa comodo. Sarebbe nettamente contrario all'interesse pubblico e alla trasparenza nonché concretizzerebbe il reato di falso in bilancio, registrando in data antecedente un evento avvenuto tanti mesi dopo dell'anno successivo. Ciò in quanto il rendiconto costituisce il risultato pregrante rappresentativo di un anno di fatti gestori che sono stati rigorosamente registrati nella contabilità dell'ente. Al riguardo, l'attenta relatrice ricorda il principio generale di irretrattabilità dei saldi sancito nell'articolo 150 del Rd 827/1924 con riguardo al rendiconto dello Stato. Non solo. Sottolinea gli irrinunciabili principi contabili quali la continuità e veridicità dei bilanci che rappresentano anch'essi un limite alla revisione dei saldi.

Vietati gli aggiustamenti
Conseguentemente, quanto «esposto in un rendiconto approvato non può essere rivisto dalla stessa amministrazione, se non in presenza di meri errori materiali». Tutto questo nel rispetto della tesi che il rendiconto debba essere l'espressione di massima veridicità dei saldi derivanti dalla gestione cui lo stesso fa rigido riferimento e non essere "aggiustato" con appostazioni riguardanti fatti materializzatisi nell'esercizio successivo che, in quanto tali, vanno appostati nel rendiconto del medesimo quali componenti straordinari. E non affatto diversamente. In proposito, l'attento giudice contabile cita la sentenza della Corte costituzionale 23 luglio 2015 n. 181 (red. Carosi) che fissa un principio indiscutibile. Al riguardo, ribadisce una regola generale di riconoscimento strutturale e pluriennale dei bilanci, sia preventivi che consuntivi, ovverosia che «il principio di continuità del bilancio è una specificazione del più ampio principio dell'equilibrio tendenziale contenuto nell'art. 81 Cost.» in quanto «collega gli esercizi sopravvenienti nel tempo in modo ordinato e concatenato».

I principi ineludibili e gli impegni elettorali
Una conclusione che realizza il principio della trasparenza e invoca la tutela iter-generazionale di offrire ciclicamente chiarezza, credibilità e fiducia attraverso la comparazione dei saldi di bilancio iniziali (promessi nel preventivo) con quelli finali realizzati (del rendiconto) dimostrativi, rispettivamente, del mantenimento degli impegni assunti con l'elettorato e del rispetto degli interessi delle generazioni future. Dunque, una bella lezione del magistrato contabile a sostegno della correttezza necessaria di offrire una immagine chiara e trasparente dei conti. Di conseguenza, quando un esercizio contabile è temporalmente chiuso e vengano successivamente fuori dei rapporti giuridici pregressi (cioè riferibili ad esercizi precedenti, del tipo ricavi sopravvenuti) - non ancora allibrati a bilancio, perché a suo tempo inaccertati o inaccertabili - non verrebbe consentita alcuna riapertura. Così come sarebbe errata la ipotesi di registrare in data utile pregressa movimenti contabili allo stato della chiusura dell'esercizio contabile in fieri non ancora accertati, con la determinazione di assicurare un implicito allungamento dell'esercizio economico sine die.

Illegittimità, irragionevolezza e reato
Una siffatta idea ictu oculi sarebbe irragionevole (oltre che illegittima). Una simile trovata basterebbe da sola per affidare all'arbitrio dell'amministratore la decisione del quando e come chiudere l'esercizio finanziario in corso, introducendo una radicale incertezza e inaffidabilità nei conti, oltre che violando una sfilza interminabile di precetti giuridici di ogni ordine a grado. L'esercizio contabile è la segmentazione periodica del flusso continuo dei rapporti giuridici - che in quanto tali non subiscono soluzione di continuità - la cui definizione legale o convenzionale è prioritariamente essenziale per consentire l'esercizio del potere di controllo dei conti, ragione fondamentale per la quale esiste il diritto dei conti. Dunque, l'esercizio si chiude rebus sic stantibus, cioè a dire con lo stato dei rapporti giuridici accertati e allibrati al tempo predefinito di chiusura dell'esercizio. Abitualmente accade che a quel tempo alcuni rapporti giuridici sono stati appostati in modo del tutto erroneo ovvero non sono accertati per varie ragioni, non sempre dipendenti dall'amministratore in carica, e in tal caso sarà dovere di quelli successivi perseguirne l'accertamento al fine di definirne le sopravvenienze e insussistenze, attive e passive. Ciò, sebbene segua la clausola della competenza (cioè a rappresentarne l'imputabilità riferita a fatti concretizzati nel relativo periodo), inciderà (esclusivamente) sullo stato patrimoniale e sul conto economico dell'esercizio in corso.

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