Il CommentoFisco e contabilità

Il fisco locale (e la delega) dimenticano la Costituzione

di Gianni Trovati

«Forse quella norma ordinaria non sarà anticostituzionale. Ma è a-costituzionale; si dimentica della Costituzione, perché il legislatore non la considera più cogente».
Se a pronunciare parole del genere è Franco Gallo, autorità del diritto tributario e presidente emerito della Consulta, è il caso di fare attenzione. E se il ragionamento punta dritto al cuore del fisco comunale, che ogni anno chiede agli italiani circa 31 miliardi di euro, l’attenzione deve essere alta. E se una riflessione così chiosa un dibattito ultradecennale sul federalismo fiscale, il problema si fa serio. Soprattutto alla vigilia dell’esame parlamentare di una legge delega per la riforma fiscale che ancora una volta sembra disinteressarsi di questo ingranaggio incagliato nel cuore del rapporto fra cittadini e istituzioni. L’occasioine per il ragionamento di Gallo è stata la presentazione alla Luiss di Roma dei due volumi dedicati ai «Tributi locali dentro e oltre la crisi», un lavoro collettaneo realizzato da Anci, Ifel e dall’Università di Bari. Merito dei curatori, Antonio Uricchio, Pierciro Galeone, Mario Aulenta e Andrea Ferri, è stato quello di far convivere due ingredienti non facili da mescolare: l’approfondimento tecnico puntuale, tributo per tributo, dei meccanismi che guidano il mondo complicato delle entrate locali, e uno sguardo extra-tributario, che punta alle ragioni civili, sociali e politiche dell’esistenza del fisco comunale.

Per andare dritti al punto è utile farsi aiutare ancora una volta da Gallo. Il federalismo fiscale, fissato nella legge 42 del 2009, attua l’articolo 5 della Costituzione, secondo cui «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». In quella legge, all’articolo 2, lettera p), c’è scritto che la fiscalità locale deve essere guidata da una «tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da favorire la corrispondenza tra responsabilità finanziaria e amministrativa».

Non serve essere tributaristi per avere chiaro il cortocircuito che ha fatto saltare il principio espresso con tanta chiarezza da un legislatore che subito dopo l’ha cancellato nei fatti. Basta essere cittadini, consapevoli del fatto che nemmeno il più acuto esaminatore dei bilanci locali è in grado di stabilire qualche forma di connessione fra le richieste tributarie e i livelli dei servizi. Perché l’Imu, l’«imposta municipale unica» che non è né «unica» né «municipale» in quanto convive con una miriade di tributi e viene divisa nel gettito fra Stato e Comuni, finisce nel calderone della perequazione orizzontale in cui solo un’eletta schiera di tecnici è in grado di orientarsi. Perché i prelievi sui rifiuti, al centro di una disputa eterna fra la loro qualificazione tariffaria e la loro essenza tributaria sono guidati dall’unico obiettivo di coprire i costi, alzandosi quindi dove il servizio è più inefficiente. Perché l’addizionale Irpef non serve ad aumentare i servizi ma a tamponare i bilanci.

Di tutto questo la delega fiscale praticamente si disinteressa, limitandosi a prospettare una sostituzione fra sovraimposte e addizionali e ad auspicare una rinuncia, tutta da finanziare, dello Stato alla quota erariale dell’Imu. I cittadini, nell’impossibità di formulare un giudizio concreto sull’amministrazione locale, potranno continuare a votare in base a simpatie o a opzioni ideologiche sempre più sgranate. Almeno quelli - sempre meno, come confermano le ultime amministrative - che hanno ancora voglia di votare alle comunali.