Amministratori

Acqua potabile, 3 miliardi d’investimenti ma al Sud la spesa è metà rispetto al Nord

Le utility migliori investono 60-65 euro pro capite, le peggiori solo 5-6 euro

di Sara Monaci

C’è ancora una profonda distanza tra Nord e Sud d’Italia nel settore idrico. Dal Lazio in su - pur con qualche eccezione - si investe fino a 60-65 euro pro capite; al Sud si arriva ad un minimo di 26. La media nazionale è di 44 euro pro capite, ben lontana comunque da quella europea, che si attesta a 90 euro, trainata dalle virtuose Danimarca e Germania.

Le società che investono di più sono quelle più grandi, che operano con economie di scala su un territorio più ampio - almeno provinciale -, che si sono aggregate o che comunque hanno saputo adottare un modello di gestione industriale. E queste si trovano appunto prevalentemente nel Centro e nel Nord del paese. Nel Sud invece l’estrema frammentazione societaria e, talvolta, la mancata volontà da parte dei Comuni di affidare il servizio idrico ad un operatore ad hoc, pubblico o privato che sia, produce scarsi risultati.

Le società che investono sono Iren, Hera, A2a e Acea, a capitale misto e controllo pubblico; Smat Torino, Cap holding e Metropolitana milanese, a controllo interamente pubblico. Eccezione interessante dal punto di vista geografico è la pugliese Aqp, che negli anni ha migliorato le performance.

Le situazioni peggiori sono in Campania, in Calabria, in Sicilia. In particolare la Abc di Napoli si occupa solo di distribuzione idrica ma non di depurazione, che ancora è in capo alla Regione Campania, e negli ultimi anni non ha presentato bilanci. Va meglio invece l’area di Salerno, con una società dalle buone performance (la Gori, a capitale misto). In Calabria molto problematica la gestione della Sorical, che si occupa di distribuzione ma ha lasciato che i Comuni raccogliessero le bollette degli utenti. Il risultato è un grave squilibrio finanziario.

Gli investimenti e i privati

Sono passati 10 anni dal referendum abrogativo che ha reintrodotto la gestione in-house dell’acqua (prevista peraltro in Europa), rendendo così possibile sia la gara che l’affidamento diretto. La campagna promotrice insistette molto sul timore dell’arrivo dei privati nel settore idrico, interessati, si diceva allora, a lucrare sull’acqua. A giudicarlo oggi quel timore era infodato: le società private sono solo l’1% e un altro 1% è rappresentato da società miste a controllo privato. Il 54% è costituito invece da società interamente pubbliche e il 33% da società miste a controllo pubblico.

Sgombrando dunque il campo dagli equivoci, le efficienze o le inefficienze vanno attribuite quasi tutte al pubblico. Quello che emerge è che a fare la differenza è la capacità di avere modelli virtuosi di gestione, che spesso coincide con la capacità di aggregazione di realtà più piccole. I gestori industriali più grandi, con fatturati superiori ai 100 milioni, investono mediamente 55 euro pro capite (con punte come detto di 60 euro); quelle con fatturato sotto i 10 milioni investono in media 33 euro pro capite (fino ad un minimo di 26 euro); le gestioni “in economia”, cioè senza società ma solo con i funzionari comunali, solo 8 euro (fino ad un minimo di 5-6 euro).

Tuttavia negli ultimi dieci anni le cose sono migliorate: in Italia, dal 2011 fino al periodo del lockdown, gli investimenti sono progressivamente aumentati, fino a 3 miliardi complessivi, coperti per un quarto dalla fiscalità generale e il resto dalla tariffa. Il fabbisogno tuttavia sarebbe di 5-6 miliardi all’anno. «È sempre preferibile ancorare gli investimenti alle tariffe, perché la fiscalità generale è più a rischio, può variare di anno in anno, può essere messa in discussione, può essere spostata verso altre necessità - spiega il direttore generale di Utilitalia Giordano Colarullo - Invece le società hanno bisogno di una pianificazione chiara su cui fare affidamento. E in generale - aggiunge - oggi dovremmo riuscire a colmare il gap tra Centro-Nord e Sud, e poi puntare a raggiungere le performance dei migliori paesi europei».

Le infrazioni europee

Il caso recente della provincia di Viterbo, dove alcuni Comuni sono stati deferiti alla Corte di giustizia europea, non è che l’ultima conferma dei rischi di una gestione approssimativa. A seguito dei rilievi dell’Ue sulla qualità dell’acqua, è emerso che i Comuni di Bagnoregio, Civitella d’Agliano, Fabrica di Roma, Farnese, Ronciglione e Tuscania, tutti con gestione diretta delle amministrazioni comunali, non garantiscono il funzionamento degli impianti di potabilizzazione, spesso per problemi economici derivanti dai modesti incassi tariffari, dovuti al mancato adeguamento delle tariffe idriche.

In tutta Italia oggi sono quattro le procedure di infrazione, di cui il 73% concentrate nei cosiddetti territori “gestiti in economia”, senza società ad hoc appunto. Quasi tutte si trovano al Sud, e la maggior parte in Sicilia. Dei problemi delle varie aree del paese se ne parlerà il 16 giugno durante il Festival dell’acqua (quest’anno in versione on line), organizzata da Utilitalia, la federazione delle imprese idriche ambientali e energetiche.

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