Il CommentoAmministratori

Sui compensi delle società limiti ancora troppo bassi

di Harald Bonura e Davide Di Russo

La stretta sulle remunerazioni nelle società del Tesoro quotate introdotto nel decreto lavoro mostra che il tema è tornato sotto i riflettori dell’attenzione al Mef.

Sul punto, nei giorni scorsi è anche tornata a circolare un’ennesima bozza del Dm previsto dall’articolo 11, comma 6 del Tusp, chiamato a fissare i parametri per il compenso degli organi delle società controllate non quotate sulla base di indicatori qualitativi e quantitativi. Il decreto è invocato da tempo (avrebbe dovuto essere adottato entro ottobre 2016), tanto più che il regime transitorio è a dir poco penalizzante, prevedendo che i compensi non possano superare l’80% di quelli del 2013.

La precedente versione aveva sollevato perplessità, prevedendo emolumenti molto distanti dai livelli di mercato, pur trattandosi di società che, in larga parte, sul mercato operano e sul mercato devono reperire il management all’altezza delle sfide da affrontare. Era lecito quindi presumere che la bozza fosse stata ritirata per essere riscritta, proprio per le critiche giunte da più parti. Invece, dopo lunga gestazione (e dopo diversi avvicendamenti di governi), sorprendentemente il testo e i numeri del “nuovo” schema di Dm non si discostano da quelli della bozza precedente.

Se il decreto verrà varato senza modifiche, il problema rimarrà invariato: il trattamento economico assembleare – stando alle tabelle della bozza - non potrà superare 35mila euro annui per il presidente dell’organo amministrativo e 30mila per il presidente dell’organo di controllo per le società in prima fascia (cioè quelle con maggiore complessità organizzativa, gestionale e dimensione economica). Per il componente dell’organo amministrativo il tetto è di 23mila euro, mentre per il sindaco effettivo di 20mila (sempre per le società in prima fascia). I numeri decrescono proporzionalmente per le quattro fasce inferiori (sino a 15mila euro per il presidente del cda e 12mila per il presidente del’organo di controllo di una società in quinta fascia). Si tratta, oltretutto, di compensi onnicomprensivi.

Si “salvano”, si fa per dire, l’ad e l’amministratore unico, i cui compensi, nel massimo, partono dal consueto tetto di 240mila euro per le società di prima fascia, fino a scendere a 120mila nelle società in quinta (sempre al lordo di contributi e oneri fiscali). Anche qui siamo sotto ai livelli di mercato. Il punto è sempre lo stesso: se le società a controllo pubblico sono chiamate a gestire importanti servizi e rilevanti giri d’affari, perché i loro organi non devono essere remunerati con compensi parametrati al mercato e al merito effettivo? Non si può confidare che i professionisti assumano rischi rilevanti e continuino a sacrificarsi per spirito di servizio.

Stabilire un tetto di 30mila euro l’anno (oltretutto per cariche che, nelle in house, espongono pure a responsabilità erariale ex articolo 12 Tusp), significa rinunciare alle migliori professionalità, che si orienteranno verso i ben più congrui emolumenti del privato.

La sensazione è che il legislatore continui a percepire i compensi di amministratori e sindaci nelle controllate un costo (o, peggio, uno spreco), da contenere; salvo però pretendere il possesso di comprovati e speciali requisiti di professionalità in capo a coloro che a tali cariche aspirino (articolo 11 Tusp). Il pericolo è di sguarnire le controllate pubbliche, condannandole al rischio di inefficienza e inadeguatezza. Tanto varrebbe, allora, precludere per legge alle Pa di perseguire le proprie finalità istituzionali mediante società.