Fisco e contabilità

Spese lente, controlli, procedure e personale: tutti gli ostacoli che frenano il Pnrr

L’emergere dei ritardi nell’attuazione della spesa innesca i rimpalli delle responsabilità, ma tra emergenze congiunturali e problemi strutturali sono molti i correttivi necessari per far accelerare la macchina del Piano

di Gianni Trovati

Intorno al Pnrr che inciampa è iniziato il balletto del «tutti contro tutti». Il governo Meloni accusa l’esecutivo Draghi, gli enti territoriali si sentono chiamati in causa sui ritardi e rilanciano la palla delle responsabilità nel campo dei ministeri (con qualche ragione), litigando nel frattempo fra loro, con il sindaco di Milano Giuseppe Sala che chiede di «dare di più alle realtà locali che possono investire» e il presidente della Calabria Roberto Occhiuto che lo accusa di «secessione». L’accendersi di un dibattito del genere è in parte fisiologico, perché i ritardi che cominciano a emergere dietro la griglia di milestones e target più o meno rispettati alimenta la paura di trovarsi in mano il cerino esplosivo delle responsabilità. Vista la situazione, però, pare più utile entrare nel merito degli ostacoli che frenano la corsa del più vasto programma di spesa pubblica del Dopoguerra.

1. Attuazione finanziaria

Tolti i crediti automatici la spesa è quasi ferma

A incendiare la polemica sui ritardi del Pnrr sono stati i numeri riportati nella relazione della Corte dei conti presentata martedì alla Camera, che traducono in termini efficaci lo snodo attuativo cruciale ma fin lì rimasto sottotraccia. A fine 2022 l’Italia ha speso circa 23 miliardi dei 191,5 finanziati dal Next Generation Eu, ma tolti i crediti d’imposta automatici per le imprese e l’edilizia, che non investono la capacità di spesa della Pa perché si attivano semplicemente con la richiesta degli investitori privati, il dato crolla a 10 miliardi su 168,4, con un tasso di attuazione inchiodato al 6%. I livelli di spesa sono sotto la metà rispetto ai programmi iniziali, e imporrebbero un’impennata dei pagamenti (dai 20,4 miliardi del 2020-22 ai 40,9 previsti per quest’anno fino a volare ai 46,5 e 47,8 miliardi in calendario per 2024 e 2025) a cui non crede nemmeno il governo. Perché per raggiungerla bisognerebbe raddoppiare la capacità di spesa della Pa.

2. Le selezioni

I bandi che faticano a vedere il traguardo

A rendere immediatamente obsoleti i programmi di spesa costruiti alla partenza del Pnrr c’è il fatto che molte procedure ministeriali per selezionare i progetti da finanziare hanno richiesto molto più tempo del previsto. I ritardi sono emersi in maniera prepotente per esempio nel filone relativo ad asili nido e scuole dell’infanzia, a cui il Pnrr dedica 4,6 miliardi con l’obiettivo di garantire in tutta Italia una copertura in linea con i target europei. Il primo inciampo è stato prodotto dalla scarsità dei progetti arrivati dai Comuni del Sud, cioè proprio dove gli asili mancano, e ha richiesto una proroga di un mese. I mesi aggiuntivi sono però diventati sei per la lentezza ministeriale nello stilare le graduatorie, al punto che proprio intorno agli asili è nato il prologo del rimpallo di responsabilità che anima il dibattito di oggi. «Il ritardo è maturato prima dell’insediamento di questo governo», ha detto a dicembre il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara (a ragione, calendario alla mano). Analoga la vicenda dei 2,6 miliardi di investimenti in «economia circolare» (impianti per i rifiuti), scanditi dalla carenza progettuale del Mezzogiorno prima e dalla lunga cucina ministeriale delle graduatorie poi.

3. Le procedure

Sulle semplificazioni più decreti che risultati

Asili nido e igiene urbana sono solo due esempi fra i più eclatanti della sabbia procedurale sparsa però in tutti gli ingranaggi del Pnrr. Il dato è sorprendente se si torna con la mente al ricchissimo filone dei «decreti semplificazioni» fioriti intorno al Pnrr. Il primo (Dl 76/2020) è stato portato in Gazzetta Ufficiale dal governo Conte-2 il 16 luglio 2020, cioè tre giorni dopo l’approvazione a Bruxelles del Pnrr italiano. L’ultimo è in discussione ora al Senato, e torna sui temi già battuti dai suoi predecessori dimezzando ancora i termini massimi di molte procedure e rafforzando i poteri di interventi sostitutivi dello Stato nei confronti dei soggetti territoriali attuatori di progetti Pnrr in caso di ritardi. Le semplificazioni ci sono state ma, lamentano prima di tutto i sindaci, sono state solo settoriali, e hanno rinunciato alla costruzione di una procedura unica veloce secondo un modello che in realtà già esiste, ma è limitato alla sola edilizia scolastica dove viene applicata proprio per i forti ritardi maturati in quel filone di intervento. Le amministrazioni locali chiedono di estendere il meccanismo a tutti gli investimenti del Pnrr, ma l’ipotesi sembra presupporre un complesso di deroghe che il governo non è intenzionato a promuovere.

4. Il personale

Boom di concorsi, boom di rinunce

La complicata macchina burocratica che disciplina l’intervento pubblico, e soprattutto l’esigenza di raddoppiare il ritmo ordinario nella realizzazione degli investimenti, grava su uffici della Pa che continuano a essere pesantemente sotto organico nonostante i vari tentativi di «rafforzamento amministrativo» condotti negli ultimi due anni. I primi numeri sono stati offerti qualche settimana fa dalla Ragioneria generale dello Stato, e sono chiarissimi: negli enti locali, che sono considerati in modo quasi unanime il settore in cui la carenza di personale è più grave e incide nel modo peggiore sulla capacità di progettare, gestire e rendicontare le misure del Pnrr, il 2022 che avrebbe dovuto vedere un deciso aumento dei dipendenti ha registrato invece un’altra flessione delle forze in campo. Nella Pubblica amministrazione centrale si incontra un modestissimo +0,66%, che però non coinvolge tutti i settori e per esempio lascia fuori funzioni strategiche come le agenzie fiscale dove il numero di dipendenti è sceso l’anno scorso dell’1,86%. Le ragioni sono molte, ma una difficoltà in più è nata dai profili ricercati per il Pnrr: si tratta di professionalità tecniche specializzate, dagli ingegneri agli architetti, dagli agronomi agli esperti di procedure europee, indispensabili per gestire la macchina complessa del Piano ma caratterizzate da molte opportunità anche nel mercato del lavoro privato. Con il risultato che il boom di concorsi favorito dal reclutamento straordinario per il Pnrr intervenuto dopo la stasi del Covid ha moltiplicato anche le rinunce: nei concorsi per architetti e ingegneri realizzati fra 2021 e 2022, ha calcolato il Formez nell’ultimo rapporto annuale, il 71,6% dei posti è rimasto scoperto. La questione delle rinunce si fa poi più complicata proprio nei Comuni, che hanno livelli retributivi più bassi e, con le norme attuali, non possono nemmeno offrire ai loro tecnici a tempo determinato (il Recovery è una tantum e non permette quindi assunzioni stabili) la promessa di stabilizzazione dopo 15 mesi di servizio possibile invece per i contratti a termine nelle unità di missione Pnrr dei ministeri.

5. Prezzi

L’inflazione travolge i quadri economici

Una Pubblica amministrazione azzoppata da difetti strutturali si è dovuta inoltre inerpicare su un sentiero del Pnrr reso scivoloso da una congiuntura fra le più complicate. Lo scenario di avvio delle gare per gli investimenti è stato infatti dominato da un’inflazione che nel caso dei materiali ha raggiunto picchi in grado di sconvolgere i quadri economici iniziali. Anche su questo argomento la relazione sul Pnrr appena presentata dalla Corte dei conti al Parlamento offre numeri capaci di inquadrare il tema in modo particolarmente efficace. La sola Alta velocità Palermo-Catania, inserita nella missione 3, componente 2 del Piano, ha assorbito 1,248 miliardi del maxi-fondo creato l’anno scorso dal ministero dell’Economia per coprire gli extracosti da inflazione nelle opere pubbliche. Altri 732 milioni sono andati alla Tav Salerno-Reggio Calabria, e in totale Rfi ha assorbito 4,559 degli 8,075 miliardi distribuiti dal fondo per le opere indifferibili. E nemmeno sul terreno della rincorsa all’inflazione delle opere pubbliche manca una peculiarità comunale, che danneggia le amministrazioni locali: dove l’assegnazione delle risorse a copertura dei rincari è arrivata fin qui in modo decisamente meno puntuale di quanto accaduto per gli attuatori della Pa centrale.

6. Anticipi

I rimborsi non bastano quando la cassa è vuota

La corsa dei prezzi, a cui non è estraneo anche l’effetto spiazzamento prodotto dal dilagare dei cantieri sussidiati dal Superbonus, ha aggravato le ricadute di un meccanismo strutturalmente poco fluido nella gestione dei flussi finanziari che alimentano gli investimenti del Pnrr. In estrema sintesi, il punto è il seguente: le imprese aggiudicatrici possono chiedere anticipi fino al 30% del valore dell’opera, ma gli acconti iniziali garantiti dal ministero dell’Economia ai soggetti attuatori sono in genere limitati al 10%. La differenza, quindi, va messa dall’ente appaltante, a patto ovviamente di avere i soldi in cassa per anticipare la liquidità poi destinata a essere rimborsata attraverso il fondo rotativo in cui passano le risorse del Recovery. È naturale che il meccanismo si inceppa nelle amministrazioni dove le casse non sono floride, e dove l’anticipazione di liquidità era una regola già prima che arrivasse il Pnrr. Il problema si trascina nei passaggi successivi perché le regole chiedono agli enti attuatori di inserire nel sistema Regis le fatture «quietanzate», cioè pagate, per poter ottenere l’erogazione delle rate successive dei finanziamenti. L’ostacolo ha già fatto inciampare molti enti, e ancora di più saranno le amministrazioni colpite con il passare del tempo, e quindi con il moltiplicarsi dei vuoti di liquidità prodotti dal procedere degli stati di avanzamento lavori. Per questa ragione le amministrazioni, in particolare quelle locali, spingono per poter ricevere i finanziamenti a fronte delle fatture ricevute, prima che avvenga il pagamento.

7. Regis

Il cervellone «unico» fino a un certo punto

Ma è tutto il sistema «Regis» a impegnare l’universo dei soggetti attuatori del Pnrr. Il Regis è il cervellone elettronico che monitora e gestisce in tempo reale ogni passaggio nel dedalo infinito di misure del Piano. Costruito dalla Ragioneria generale dello Stato, il Regis può svolgere in pieno il proprio ruolo se è il terminale unico di tutte le azioni del Pnrr. Ma per molto tempo alcuni ministeri, per esempio quello dell’Istruzione, hanno chiesto agli enti attuatori di alimentare altri sistemi informatici, dicastero per dicastero, con una duplicazione di adempimenti che ovviamente non aiuta la velocità dei procedimenti.

8. GOVERNANCE

Il gioco dei contrappesi fra Mef e Palazzo Chigi

Il ruolo centrale della Ragioneria generale è stato rivisto anche dalla modifica della governance del Pnrr appena realizzata con il decreto 13/2023 ora al Senato. Il nuovo assetto concentra il potere di indirizzo politico alla Struttura di missione di Palazzo Chigi, ma rafforza anche l’architettura tecnica al Mef con la creazione dell’Ispettorato generale del Pnrr proprio per superare gli affanni gestionali registrati fin qui.

9. Milestones

Sulle riforme armonia da ritrovare con la Ue

L’indirizzo politico più decisamente condensato su Palazzo Chigi avrà come suo primo compito quello di ritrovare un’armonia con Bruxelles sulle riforme che si è persa per strada. Il disallineamento è nato prima del cambio di governo, come mostrano le contestazioni comunitarie alla riforma delle concessioni portuali preparata dall’esecutivo Draghi. Ma le battaglie quotidiane ingaggiate dal governo Meloni su Mes, balneari e governance economica non sembrano aiutare.

10. Sotto esame

Intanto in Europa cresce il vento contrario

Tutto questo avviene mentre si moltiplicano i segnali di un vento europeo non esattamente favorevole alle ambizioni italiane. Molto ha pesato l’allarme lanciato qualche settimana fa dalla Corte dei conti Ue, che ha lamentato di fatto l’assenza di meccanismi di controllo puntuale sulle modalità effettive di spesa delle risorse comuni da parte dei Paesi membri, con un danno alla trasparenza giudicata invece la premessa essenziale per alimentare la «fiducia dei contribuenti» sulla destinazione dei loro soldi. L’allarme è stato rilanciato dal Parlamento europeo, a dimostrazione del fatto che stanno tornando centrali le obiezioni di chi in Europa non è entusiasta della condivisione dei rischi alla base del debito comune.

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