Il CommentoPersonale

Accesso, incentivi, carriere: un’altra occasione perduta per il mondo della scuola

di Andrea Gavosto

La legge 79, appena approvata dal Parlamento, è il cuore delle politiche scolastiche previste dal Pnrr. L’Italia si è infatti impegnata a realizzare una serie di importanti riforme come condizione per accedere ai fondi messi a disposizione dalla Ue. È una scelta sensata: spendere quasi 20 miliardi di euro per l’istruzione, senza toccare i meccanismi che governano il funzionamento della scuola, avrebbe reso pressoché inutile un investimento di questa portata.

La legge avrebbe dovuto occuparsi di tre questioni fondamentali e urgenti: la formazione e il percorso per diventare insegnanti; l’aggiornamento professionale di chi insegnante è già; la costruzione di un percorso di carriera per tutti. L’urgenza è facilmente comprensibile: in Italia un enorme numero di studenti al termine del percorso scolastico non raggiunge un livello di competenze adeguate, come certificato dai dati Invalsi. Poiché la qualità degli apprendimenti – oltre che dall’origine socioculturale – dipende essenzialmente dalla qualità dell’insegnamento, su questi ritardi molto pesano il nostro fallimentare sistema di selezione dei docenti – che non riesce più a coprire un posto di ruolo vacante su due e produce oltre 200mila supplenti all’anno – e le carenze della formazione iniziale ricevuta dagli insegnanti, soprattutto per quanto riguarda le capacità didattiche e di stare in classe in modo efficace. Inoltre, soprattutto nelle materie scientifiche, è sempre più difficile attrarre i laureati più brillanti all’insegnamento, scoraggiati dalla percezione di un lavoro poco prestigioso, non selettivo, mal retribuito.

La riforma voluta dal governo – su cui il Parlamento ha avuto pochissimi margini di intervento – è al di sotto delle aspettative.

In materia di formazione iniziale e di percorso di assunzione, la principale esigenza era ritornare, dopo decenni, a un percorso unico di ingresso nella professione, evitando la moltiplicazione dei canali, ciascuno creato per favorire una categoria a spese di altre e in molti casi di qualità insoddisfacente. La semplificazione è riuscita solo in parte. Esiste ora una strada maestra per entrare nella scuola secondaria (per la primaria rimane la laurea abilitante): un anno di formazione universitaria all’insegnamento (in tutto 60 crediti), aggiuntivo alla laurea, che prevede finalmente moduli di metodologia didattica e di tirocinio in aula, come in molti altri Paesi europei. Al termine, il candidato svolge un esame di abilitazione, per dimostrare di avere i requisiti necessari per insegnare: chi supera l’abilitazione può partecipare al concorso per le cattedre di ruolo, in numero programmato secondo le esigenze delle scuole. A differenza di oggi, abilitazione e assunzione sono separate: non tutti gli abilitati hanno la certezza di entrare in ruolo. Il buon funzionamento del meccanismo dipenderà soprattutto dalla severità dell’esame di abilitazione, che consiste in una prova scritta (un’analisi critica del tirocinio svolto, a prima vista non molto impegnativa) e in una lezione simulata. A regime, il modello potrebbe funzionare. Il problema è che ancora una volta – e non solo in via transitoria – a fianco del canale principale sono stati creati percorsi ad personam, venendo meno al principio di un accesso uguale per tutti. Il più importante, che riguarderà decine di migliaia di candidati, è a favore di coloro che hanno svolto supplenze per almeno 36 mesi: possono accedere direttamente al concorso senza abilitazione; se lo vincono, dovranno ottenere un numero limitato di crediti per un’abilitazione a posteriori, in base al presupposto che chi svolge supplenze abbia già un’esperienza di insegnamento e quindi meriti uno sconto per entrare in cattedra. Ma, a differenza del tirocinio, la qualità di questa esperienza non viene mai verificata. È probabile che nei primi anni della riforma, il grosso dei nuovi insegnanti provenga da questo canale, anche in risposta all’esigenza sindacale di facilitare l’immissione in ruolo dei troppi precari. Non è tecnicamente una sanatoria, perché ci sono comunque da superare un concorso e una prova di abilitazione. Nondimeno, una fase di formazione didattica preliminare sarebbe stata opportuna.

Passando all’aggiornamento professionale di chi è già in servizio, la scelta è stata di non renderlo obbligatorio per tutti, come accade in molti Paesi, ma di proporre incentivi economici affinché gli insegnanti per almeno tre anni ritornino sulla loro materia e sulle metodologie di insegnamento. Perché il piano abbia successo e non siano quelli che ne hanno meno bisogno a frequentare i corsi di formazione, occorre che l’incentivo sia significativo. Ma, per ragioni di bilancio, si è deciso che sia temporaneo e non permanente; dunque, meno efficace. Inoltre, conosciamo l’entità dell’una tantum (fra 10 e 20% della retribuzione di base), ma non quella dei potenziali beneficiari, da definirsi di volta in volta in base alle risorse finanziarie a disposizione. È improbabile che qualcuno si imbarchi in un corso triennale se la probabilità di ricevere il premio fosse, supponiamo, del 10%. Inoltre, rimangono da stabilire i contenuti della formazione, che saranno definiti dalla contrattazione sindacale in ciascuna scuola, e chi otterrà il premio finale, sulla base di un modello di valutazione dai confini ancora molto incerti. Non aver messo chiaramente le carte sul tavolo rischia di rallentare l’adesione alla formazione di un numero significativo di docenti. Questi problemi si sarebbero potuti risolvere più facilmente se il Governo avesse dato seguito al terzo impegno nei confronti dell’Europa, l’istituzione di una carriera dei professori. Nell’arco della vita lavorativa gli insegnanti non compiono passaggi di carriera né ricevono aumenti salariali, se non per anzianità. Per contro, le scuole hanno bisogno di persone che coadiuvino il preside, programmino le attività, coordinino le pratiche didattiche dei colleghi, ecc. Per assolvere a questi compiti bisognerebbe introdurre livelli crescenti di responsabilità didattiche e organizzative, con aumenti salariali consistenti. In questo modo l’aggiornamento avrebbe un fine chiaro, i soggetti sarebbero valutati per i passaggi di carriera, si amplierebbe la progressione retributiva, si attirerebbero giovani desiderosi di impegnarsi nella scuola. Nel testo della legge c’è appena un rimando alla formazione di queste figure professionali, ma manca del tutto il disegno organizzativo sottostante. È auspicabile che nei prossimi mesi le forze politiche diano attuazione a questo impegno, di cui si discute ormai da anni.

Pur con qualche progresso, la riforma della scuola non sembra dunque in grado di dare la scossa necessaria al nostro sistema scolastico: è un peccato, difficilmente un’occasione simile si riproporrà a breve.