Fisco e contabilità

Coniugi in comuni diversi, più difficile evitare l’Imu

Solo con la prova della fine del vincolo non si versa su entrambe le abitazioni

di Luigi Lovecchio

Coniugi con residenze separate in comuni diversi al bivio dell’acconto Imu: se non possono provare la «frattura del vincolo coniugale» devono pagare l’imposta per entrambe le abitazioni.

Si tratta degli effetti (eccessivamente) rigorosi dell’orientamento della Corte di Cassazione, che ha trovato conferma anche in recenti pronunce dell’anno in corso (2194/2021).

Sebbene nell’Ici fosse pacifica la tesi secondo cui l’esenzione in esame spettasse solo a condizione che nell’unità immobiliare dimorasse l’intero nucleo familiare, si era inizialmente ritenuto che nell’Imu tale posizione fosse superata. Ciò in quanto la normativa di riferimento (articolo 13 del Dl 201/2011) regolava in modo espresso il solo caso delle residenze disgiunte all’interno dello stesso comune. In tale eventualità, è in effetti espressamente disposto che l’esonero si applichi solo ad una delle due case. Ciò ha indotto il dipartimento delle Finanze (circolare 3/2012) ad affermare che nella diversa ipotesi di residenze disgiunte in comuni distinti l’agevolazione potesse essere duplicata, nel presupposto che fossero valorizzate, ad esempio, le ragioni lavorative di ciascuno dei coniugi.

Non è stata di questo avviso la Cassazione che ha invece osservato come anche la norma dell’Imu imponga quale condizione costitutiva del diritto all’esonero che l’intero nucleo familiare del possessore dimori e risieda anagraficamente nella casa per la quale si richiede l’esenzione per abitazione principale. Ne deriva, a stretto rigore, che laddove i due coniugi risiedano in comuni diversi, in nessuna delle due case risulta rispettato il criterio della “unitarietà” del nucleo familiare. Con l’ulteriore paradossale conseguenza che entrambe le unità immobiliari dovranno scontare l’imposta comunale.

È evidente che, così decidendo, si discrimina anche rispetto alla situazione delle due case di residenza all’interno dello stesso comune, poiché in tale ipotesi quantomeno una delle due ha senz’altro diritto all’esonero.

Colpisce inoltre l’«assolutezza» del principio statuito dalla Corte che non lascia spazio neppure a effettive esigenze di lavoro della coppia. L’unica eccezione è il caso in cui i soggetti passivi possano dimostrare la frattura del vincolo coniugale, ad esempio, producendo gli atti di avvio della separazione legale.

I comuni hanno da parte loro attivato in forma massiva le procedure di accertamento per le annualità pregresse che tuttavia non dovrebbero recare l’addebito delle sanzioni, in virtù del principio sancito nell’articolo 10 della legge n. 212/2000.

Non vi è dubbio però che tale esimente non possa persistere anche per l’anno in corso, essendo oggi ampiamente noto l’orientamento contrario della Corte.

In vista della scadenza del 16 giugno, quindi, in presenza di residenze disgiunte, si è di fronte al bivio: a) o si dimostra che i coniugi sono in via di separazione, ed allora l’esenzione è raddoppiata; b) oppure si deve pagare per tutte e due le abitazioni. Per i soggetti interessati, sarebbe a questo punto più conveniente riunire le residenze anagrafiche in un’unica unità, fruendo così dell’esenzione almeno per questa. In tale eventualità, la variazione di residenza non potrà, di norma, avere effetti retroattivi. L’esonero, quindi, sarà applicabile solo a partire dalla data in cui la “riunione anagrafica” ha avuto efficacia.

In prospettiva, è del tutto evidente come la posizione della Corte appaia del tutto anacronistica, rispetto all’evoluzione dei modelli di vita. È giusto che eventuali abusi siano puniti, ma pretendere che due coniugi risiedano sempre sotto lo stesso tetto è, innanzitutto, palesemente irragionevole.

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