Urbanistica

Consumo del suolo: Monza, Napoli e Milano le città più edificate

A luglio attesa la proposta di direttiva Ue. Dal real estate le linee guida per rendere trasparenti i rischi

di Cristiano Dell'Oste e Alexis Paparo

«Quest’anno ci siamo giocati l’Austria», diceva una storica pubblicità del Wwf contro la deforestazione in Amazzonia. In Italia – in termini di consumo di suolo – nell’ultimo anno ci siamo giocati un territorio grande come il comune di Mantova o Pavia: 6.334 ettari, cioè 63 chilometri quadrati, secondo il rapporto dell’Ispra (dati 2021). In 15 anni, dal 2006 al 2021, le aree edificate sono aumentate di oltre 115.271 ettari (1.153 chilometri quadrati). Una superficie pari alla provincia di Imperia o al comune di Roma.

Nel 2006, il suolo italiano “consumato” da strade e costruzioni era pari al 6,75%; alla fine del 2021 è arrivato al 7,13 per cento. La media Ue è del 4,2 per cento. Al di là dei buoni propositi, negli ultimi anni la tendenza è proseguita a ritmo costante. Un aumento silenzioso, che finisce in prima pagina solo in occasione di alluvioni come quella che ha colpito la Romagna. Ma che ha vari effetti negativi: aggrava le ondate di calore, causa la perdita di aree verdi e biodiversità, e può aumentare il rischio di allagamenti. Oltre a esaurire una risorsa non riproducibile, come ricorda anche il messaggio cardine della Giornata mondiale dell’ambiente che si celebra oggi: #OnlyOneEarth (Solo una terra).

Il record italiano «dipende, da un lato, dalla conformazione territoriale che comporta un’intensità di concentrazione della popolazione in termini di sfruttamento del suolo; dall’altro, dall’elevata frammentazione in materia di competenze», spiega Michele Munafò, responsabile scientifico dei rapporti sul consumo di suolo dell’Ispra. «Gli 8mila comuni hanno la competenza sulla gestione dei propri piani urbanistici, che nella quasi totalità dei casi prevedono aree di espansione ancora non sfruttate, che determinano buona parte del consumo di suolo attuale». La provincia di Monza e Brianza si conferma quella con la maggior percentuale di suolo consumato (40,7%), seguita da Napoli (34,6%) e Milano (31,7%). Le stesse tre province guidavano la classifica nel 2006 e negli ultimi 15 anni hanno consolidato il primato.

Le cifre dell’Ispra evidenziano due fenomeni. Primo: le zone più costruite si concentrano in pianura e nella cerchia delle grandi aree urbane. Secondo: si tende a costruire di più nelle zone dove c’era già la maggior concentrazione. Tra le province che – in termini relativi – hanno consumato meno suolo ci sono Trieste, Lucca, Pistoia, Genova, La Spezia e Firenze. Tra quelle in cui le aree edificate sono cresciute di più in percentuale, oltre alle tre più edificate, ci sono tre province pugliesi (Bari, Taranto e Brindisi) e Ravenna.

Costruzioni e alluvioni

«Continuiamo a consumare suolo e questo di per sé non è positivo, ma non è vero che ciò corrisponda sempre a più alluvioni: è un tema complesso e come tale va trattato», osserva Luca Ferraris, presidente della Fondazione Cima, centro di competenza della Protezione civile. «Certo costruire in aree inondabili o restringere gli alvei dei fiumi aggrava il rischio, ma oggi ormai accade di rado – osserva –. Quel che è successo in Romagna ha cause che risalgono agli anni 50 e 60, quando abbiamo urbanizzato e bonificato in modo pesante e soprattutto abbiamo ristretto i corsi d’acqua».

Di fronte al clima che cambia, servirebbe, secondo Ferraris, una «svolta ragionata», anziché invocare la costruzione di argini dopo ogni disastro. «Per contrastare il rischio di alluvioni bisognerebbe ripristinare le aree di espansione – aggiunge – in cui fiumi e torrenti possano esondare senza pericoli. Ma molte di quelle che potrebbero essere valide aree di espansione le abbiamo già urbanizzate e dovremmo recuperarle poco alla volta».

Secondo un’elaborazione di Scenari Immobiliari, i chilometri quadrati di suolo rigenerato in Italia sono passati da 242,5 a 527 tra il 2013 e il 2022. Un segnale positivo ma non sufficiente.

Cosa insegna l’Europa

Se costruire su aree già impermeabilizzate è la strada maestra per rallentare il consumo di suolo – delineata anche dalla strategia europea – come ci si muove fuori dall’Italia? Munafò dell’Ispra spiega che, in media, nella Ue si riscontra una minore frammentazione delle competenze e una maggiore attenzione alla pianificazione del territorio. Molti Paesi hanno individuato un confine netto fra città e campagna, al contrario della “città diffusa italiana” nell’area padano-veneta o emiliana, e varato leggi nazionali con obiettivi progressivi di riduzione, cosa di cui l’Italia non è ancora riuscita a dotarsi. «Manca un regolamento europeo», conclude Munafò. «A luglio dovrebbe essere discussa la proposta europea di direttiva «Soil health - protecting, sustainably managing and restoring Eu soils» la seconda di questo tipo, dopo la prima presentata nel 2006 e ritirata nel 2014, ma i tempi sono stretti perché nel 2024 si andrà a elezioni europee, e il tema è controverso e complesso».

L’Europa, con gran parte del suo stock immobiliare costruito prima del 2010 e quasi un quarto prima del 1945, non raggiungerà i suoi obiettivi di azzeramento del consumo netto di suolo e di emissioni entro il 2050 senza la riqualificazione dell’esistente e il settore del real estate sembra esserne via via più consapevole.

Alla sua conferenza europea, a Madrid fino all’8 giugno, Urban Land Institute presenta linee guida che delineano un approccio standardizzato per valutare e rendere i rischi di transizione climatica parte delle valutazioni immobiliari. E sta lavorando a uno strumento che permetta di analizzare il rischio sui singoli edifici. «Oggi le valutazioni non incorporano il costo necessario per rendere gli edifici neutrali dal punto di vista climatico, non ci sono regolamenti a riguardo, ma sappiamo che è necessario che questo avvenga» spiega Lisette van Doorn, amministratore delegato di Uli Europe. «Nessuno però si muove singolarmente, perché farlo significherebbe abbassare il valore del singolo edificio. Rendere i costi trasparenti serve a motivare il settore a muoversi insieme, trasformando l’esistente invece di costruirne di nuovo».

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