Contratti, niente rinnovi automatici e occhio alle proroghe illegittime (rischio danno erariale)
Il principio ribadito da Consiglio di Stato e Corte dei Conti: il contratto di appalto in scadenza non può essere prorogato né rinnovato, serve una gara
Due recenti sentenze (la prima del Consiglio di Stato e la seconda della Corte dei Conti) hanno affrontato, sotto due diversi profili, il tema della continuazione di un appalto oltre il termine naturale di scadenza del relativo contratto, in deroga al principio generale che impone il ricorso alla gara per la scelta del nuovo contraente.
Nello specifico, il Consiglio di Stato, Sez. V, 24 marzo 2022, n. 2158 ha sancito il divieto di rinnovo automatico del contratto, che deve considerarsi nullo per violazione di norme imperative. A sua volta la Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per l'Umbria, n. 11 del 21 marzo 2022 ha affermato l'illegittimità di una proroga reiterata del contratto di appalto, sancendo la responsabilità per danno erariale degli esponenti (politici e tecnici) dell'ente pubblico che hanno proceduto (o non hanno evitato) detta proroga.
Il divieto di rinnovo automatico
Il Consiglio di Stato si è espresso in relazione a un caso in cui un Comune, con un contratto di natura transattiva che poneva fine a un precedente contenzioso, affidava il servizio di illuminazione di lampade votive nel locale cimitero. Il contratto conteneva una clausola in base alla quale il servizio aveva una durata di 15 anni, con rinnovo automatico e tacito per ulteriori 5 anni salvo contestazioni scritte da parte dell'ente appaltante. Alla scadenza del primo periodo di durata contrattuale di 15 anni l'ente appaltante comunicava di non voler procedere al rinnovo automatico e tacito per i successivi 5 anni. A giustificazione di questo diniego veniva invocata la previsione già contenuta nell'articolo 6 della legge 537/1993 contenente il divieto esplicito di rinnovo tacito dei contratti pubblici, successivamente confermato dal Dlgs. 50/2016 e costantemente ribadito dall'Anac e dalla giurisprudenza amministrativa.
Il contraente impugnava tale comunicazione davanti al giudice amministrativo, articolando una nutrita serie di motivi. Il Tar Calabria respingeva il ricorso, ritenendo che la clausola contrattuale che prevedeva il rinnovo tacito e automatico fosse da considerarsi nulla in quanto così qualificata dallo stesso legislatore che, nel prevedere il divieto di rinnovo tacito, aveva appunto ritenuto nulli i contratti stipulati in violazione di tale divieto.
La sentenza del giudice amministrativo di primo grado veniva impugnata dal contraente davanti al Consiglio di Stato. Il primo motivo di appello si è incentrato su un'interpretazione della clausola contrattuale sopra richiamata volta a sostenere che la stessa fissava in 20 anni la durata complessiva del contratto, nell'ambito della quale la suddivisione in due distinti periodi (15 e 5 anni) avrebbe il solo scopo di porre fine al rapporto nell'ipotesi in cui, trascorso il primo periodo di 15 anni, l'ente appaltante avesse ravvisato difetti di esecuzione o negligenze tali da imporre la risoluzione del contratto. In ogni caso, sempre secondo l'appellante, si sarebbe tuttalpiù di fronte a una mera proroga del contratto da considerarsi ammissibile sulla base anche di specifiche previsioni della disciplina pubblicistica.
Inoltre, a completamento delle considerazioni esposte, è stato sostenuto che il divieto di rinnovo automatico dei contratti riguarderebbe esclusivamente i contratti passivi, cioè quelli che comportano un esborso a carico dell'ente pubblico. Il divieto invece non opererebbe per i contratti attivi, cioè quelli che – come nel caso di specie, che si configura come una concessione di pubblico servizio che contempla un canone a carico del concessionario - prevedono un'entrata a favore del medesimo ente. Un ulteriore motivo di appello ha riguardato le modalità procedurali che hanno accompagnato l'invio della comunicazione da parte del Comune. Sull'assunto sostenuto dall'appellante che non vi fosse un divieto legale di rinnovo cui il Comune si era uniformato, lo stesso appellante ha rilevato come fossero state violate una serie di norme procedurali, che avrebbero prodotto l'illegittimità della comunicazione inviata. In particolare il Comune avrebbe revocato l'affidamento senza dare evidenza delle ragioni di pubblico interesse a sostegno di tale scelta; avrebbe violato l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento di riesame delle precedenti determinazioni; non avrebbe condotto un'adeguata istruttoria a giustificazione della scelta effettuata.
La posizione del Consiglio di Stato
I motivi di appello sono stati tutti respinti dal Consiglio di Stato.Il punto di partenza per il rigetto del ricorso è costituito dalla corretta interpretazione della clausola che prevedeva il rinnovo tacito del contratto. Secondo il Consiglio di Stato la volontà dei contraenti è inequivoca e non si presta a dubbi interpretativi: tale volontà era nel senso di rinnovare in forma tacita il contratto (per ulteriori 5 anni rispetto ai 15 anni iniziali) alle medesime condizioni originarie.Di conseguenza, non può trovare in alcun modo accoglimento la diversa opzione interpretativa avanzata dall'appellante, secondo cui il contratto avrebbe avuto fin dall'inizio una durata di 20 anni, salvo la possibilità per l'ente pubblico di farlo cessare dopo i primi 15 anni in caso di contestazioni da muoversi nei confronti del contraente privato. In particolare, il rinnovo contrattuale comporta una nuova negoziazione con il contraente, da cui può anche conseguire la modifica delle precedenti condizioni.
Tuttavia, se è previsto il rinnovo tacito – come nel caso di specie – la conferma delle precedenti condizioni è implicita, non necessitando di alcuna manifestazione di volontà espressa. Alla luce di tali considerazioni il giudice amministrativo di secondo grado conferma la nullità della clausola contrattuale in esame, per contrasto con l'articolo 6 della legge 537/93 che sancisce il divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici. Peraltro, il riferimento a tutti i contratti pubblici è sufficiente a superare anche l'altra obiezione sollevata dal ricorrente, secondo cui il divieto si applicherebbe ai solo contratti passivi. La formulazione letterale della norma porta infatti a ritenere che tale divieto operi anche con riferimento ai contratti di concessione di pubblico servizio – come quello del caso di specie – in cui il concessionario versa un canone all'ente pubblico concedente.
Quest'ultima conclusione si giustifica anche alla luce della ratio che sorregge il divieto di rinnovo. Tale ratio va identificata con l'esigenza di garantire l'apertura del mercato alla concorrenza, evitando che attraverso il rinnovo dei contratti si consolidino illegittimamente posizioni di privilegio in capo a determinati operatori. Tenuto conto dell'insieme di queste valutazioni il Consiglio di Stato conclude nel senso che la comunicazione con cui il Comune ha manifestato la sua volontà di interrompere il rapporto contrattuale deve qualificarsi come un atto meramente ricognitivo della nullità della clausola che prevedeva il rinnovo tacito. Con l'ulteriore conseguenza che non possono trovare applicazione tutte le norme procedimentali invocate dall'appellante, che riguardano i provvedimenti amministrativi tipici e non certamente un atto avente la natura sopra ricordata.
Il divieto di proroga
L'intervento della Corte dei Conti ha riguardato invece un caso di proroga di un contratto di appalto, avente ad oggetto il servizio di ricovero e mantenimento di cani randagi. La gestione di tale servizio era stata affidata dal Comune per un lungo periodo di tempo a un operatore locale, attraverso una serie di proroghe successive alcune delle quali di mero fatto, nel senso che in alcuni casi il servizio è continuato anche dopo la scadenza della precedente proroga e solo in un momento successivo la situazione è stata regolarizzata con un atto ad hoc. Secondo la prospettazione della Procura regionale della Corte dei Conti ciò avrebbe prodotto un danno alla concorrenza imputabile alla condotta gravemente colposa degli esponenti del Comune, imputati quindi di danno erariale. Tale danno è stato determinato in via equitativa prendendo come riferimento il ribasso medio praticato in gare aventi un oggetto similare nel periodo considerato.
L'azione di responsabilità erariale è stata intrapresa nei confronti di esponenti del Comune sia politici che tecnici. I primi si sono difesi evidenziando che gli organi politici avevano più volte deliberato lo svolgimento della gara, decisioni cui non si era dato seguito per le contestazioni mosse dal gestore e per l'impossibilità di identificare il numero dei cani da ospitare e quindi di determinare l'importo a base d'asta. La litigiosità del gestore con i conseguenti effetti ritenuti impeditivi dello svolgimento della gara sono stati sollevati anche dal dirigente comunale, che ha peraltro invocato anche i limiti dei poteri in capo ai dirigenti.
La posizione della Corte dei Conti
Il giudice contabile ha respinto gli argomenti difensivi degli imputati, con alcune affermazioni che delimitano i caratteri propri della responsabilità erariale. La pronuncia ritiene che nel caso di specie sia inequivocabile la condotta gravemente colposa dei soggetti coinvolti, generatrice di danno erariale. L'elemento fondamentale alla base di questa conclusione è rappresentato dal fatto che sia il diritto comunitario che quello nazionale impongono come regola generale che l'affidamento dei contratti pubblici avvenga a seguito di procedura di gara aperta al mercato. Ciò in quanto la corretta gestione delle risorse pubbliche impone la messa in concorrenza delle prestazioni, così da massimizzare i risparmi per l'ente pubblico committente.
Nel caso di specie questa regola è stata ripetutamente violata. L'ente locale ha fatto più volte ricorso alla proroga, laddove l'ordinamento ammette solo la così detta proroga tecnica, limitata a situazioni di comprovata necessità e urgenza e per un periodo circoscritto.Né possono assumere rilievo le argomentazioni prospettate dagli esponenti dell'ente fondate sul comportamento ostruzionistico del gestore. Al contrario, proprio tale comportamento avrebbe dovuto indurre l'ente a porre in essere tutte le azioni per giungere alla sostituzione dello stesso. Quanto all'individuazione dei soggetti su cui grava la responsabilità erariale, è corretto che la stessa sia ripartita tra gli organi politici e quelli tecnici. I primi in quanto tenuti a impartire direttive e a esercitare poteri di vigilanza e controllo; i secondi in quanto tenuti a dare tempestiva attuazione agli indirizzi ricevuti attraverso atti amministrativi di gestione concreta. Entrambe condizioni totalmente mancate nel caso di specie: non è infatti sufficiente che l'organo politico affermi di avere deliberato lo svolgimento della gara, se poi non è seguita una puntuale attività di controllo sull'attuazione di tale indirizzo; né che l'organo tecnico evidenzi di avere segnalato le criticità all'organo politico, senza aver preso provvedimenti concreti per superarle.
Il principio della gara
Il principio che emerge dalle due pronunce è chiaro: alla naturale scadenza del contratto di appalto lo stesso non può essere prorogato né rinnovato.L'unica eccezione a tale principio è esplicitata dallo stesso Codice dei contratti pubblici, che prevede la possibilità della così detta proroga tecnica a due condizioni: che la stessa sia stata prevista nei documenti della gara originaria e che abbia la durata strettamente necessaria allo svolgimento della nuova gara (articolo 106, comma 11). In mancanza di queste condizioni l'allungamento temporale del contratto – qualunque sia la modalità – non solo è illegittimo sotto il profilo oggettivo, comportando l'annullabilità o addirittura la nullità dei relativi atti; ma comporta anche sotto il profilo soggettivo la responsabilità erariale in capo agli esponenti dell'ente publico cui è attribuibile il relativo comportamento.