Fare il sindaco in Italia? Ecco perché diventa una missione impossibile
Poteri limitati, debiti ingenti, stipendi modesti e responsabilità ampie fanno sì che i candidati siano pochissimi
L’incalzante dibattito pubblico in corso sulla difficoltà – bipartisan – di trovare candidati sindaci per le grandi Città (a iniziare da Roma, Milano, Torino, Napoli), attese dopo l’estate da un’ampia tornata di elezioni amministrative, sfida tutti a interrogarsi sulle cause di una situazione che interessa milioni di italiani ed è quindi questione politica nazionale, piuttosto che di solo governo locale.
Perché se il tema c’è – e c’è, evidentemente – deve
avere delle cause.
Nel dibattito, importante e per questo partecipato, sono intervenuti esponenti di primo piano della vita pubblica (Giuseppe Sala, Matteo Salvini, Dario Nardella, Ignazio Marino, e, da ultimo, Luigi Di Maio, dopo l’assoluzione dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti) e attenti commentatori (Marco Damilano, Gianni Trovati, Edoardo Segantini, Gianni Santamaria, Emanuele Lauria, solo per citarne alcuni), indicando – seppure con accenti e punti di vista diversi – essenzialmente in tre fattori le cause della cosiddetta fuga dalla candidatura.
In primo luogo, la vistosa asimmetria fra i limitati poteri assegnati dalla legge per incidere effettivamente sulla qualità del vivere dei cittadini, da un lato, e, di contro, le ampie responsabilità (non di rado, perfino di carattere oggettivo, cioè slegate da propri concreti comportamenti sbagliati, secondo una formula che un gigante della civiltà giuridica moderna come Cesare Beccaria non approverebbe) cui il primo cittadino è costantemente esposto
nel corso del mandato.
In secondo luogo, è stato fatto notare che quello di sindaco è, anche, un servizio a tempo pieno (anzi, pienissimo) ma “sottopagato” (per il sindaco di Roma è prevista un’indennità mensile di circa 9mila euro lordi, meno cioè dello stipendio dei dirigenti dell’amministrazione capitolina).
Infine, come si coglie meglio in alcune situazioni (800 comuni su 1.750, secondo Il Sole 24 Ore), la storia finanziaria pregressa di tanti enti locali ipoteca, condizionandola fortemente, quella futura, scoraggiando anche per questo verso l’assunzione di un ruolo – quello, appunto, del sindaco – che rischia di non poter contare al riguardo su alcuno spazio, concreto, di agibilità, nelle azioni concrete tese ad assicurare la qualità del vivere
nelle nostre Città.
Per non dire, poi, di quelle altre situazioni – di Città tanto uniche quanto “fragili”, per il ruolo politico catalizzante (con impatti anche nella vita di tutti i giorni: cortei, blocchi del traffico, etc.) o per la delicatezza degli equilibri sul fronte residenti/turisti e su quello ambientale – dove la possibilità per i sindaci di incidere davvero su determinate criticità è fortemente condizionata anche dall’assenza di poteri speciali analoghi a quelli da tempo dati ad altre capitali europee (Roma) o da leggi speciali che non si adattano con la necessaria velocità al mutare delle complesse condizioni di contesto (Venezia).
È consentito meravigliarsi, a fronte di questo stato di cose, che nelle grandi Città che vanno al voto in autunno si fatichino a trovare candidati?
Meglio, che non si trovi – diversamente dal passato – una ampia disponibilità alla candidatura?
Un tempo, infatti, il problema era quello opposto, l’overbooking delle candidature. Poi, un declino costante della politica (dovuto a tanti fattori) ha portato in auge il modello delle candidature espresse dalla società civile, intese come figure non già dedite o prestate alla politica, ma – piuttosto – alla loro prima
esperienza in politica.
Sono soprattutto queste, le candidature che oggi mancano. Con uno spiazzante cortocircuito, perché una politica in crisi si aggrappa alle espressioni di “civismo”, senza però riuscire a trovarne incarnazioni disponibili, essenzialmente per il timore, fra chi viene sondato, di venire accomunato a chi è dedito solo alla politica, o di seguire la stessa sorte, anzitutto sul piano mediatico e/o giudiziario.
Al riguardo, è da dire che il dibattito in corso sarebbe monco se non si ponesse fino in fondo il tema della connessione, riguardo al primo fattore, fra questo timore e la casistica di sindaci condannati in forza della formale posizione di garanzia che la legge gli cuce addosso anche se dispongono di poteri per lo più di indirizzo, anziché di gestione, e non gli è quindi attribuibile uno specifico comportamento materiale deviato o deficitario.
Per non dire di imputazioni che, muovendo da illeciti disegnati dalla legge in modo evanescente, partono fra mille rulli di tamburo mediatico e si concludono, in sordina, in prevedibile assoluzione (sovente, su convinta richiesta dello stesso pm, che la legge obbliga ad agire d’ufficio).
Per vero, sarebbe monco, quel dibattito, anche se non ci si interrogasse sul tema delle tante implicazioni di un impegno – quello del sindaco – da svolgere a tempo pienissimo, con esposizione costante a responsabilità multiple, ma non pagato abbastanza. Specie, va aggiunto, per chi abbia sì dato buona prova di capacità nel proprio settore, ma viva di solo lavoro,
e non sia già ricco di suo.
Infine, sarebbe monco, quel dibattito, se eludesse la realtà, critica, di tantissimi comuni a rischio default, comprese grandi Città (in una ideale – ma, in questo, indesiderabile – unità di Italia, si va dai 430 milioni di euro di debito di Torino ai 950 di Napoli per arrivare ai 176 di Reggio Calabria).
Gli enti locali a rischio sarebbero addirittura 1400, secondo il Presidente dell’Anci, Antonio De Caro, che aggiunge: «Se saltano i bilanci, saltano anche i servizi. Tagliare le spese vuol dire spegnere luci, non raccogliere i rifiuti, chiudere gli asili».
Si è arrivati a questa situazione perché una legge statale prevedeva la possibilità, per i comuni, di restituire in 30 anni le anticipazione di liquidità concesse per pagare i debiti commerciali. La Corte costituzionale ha poi cancellato quella legge, affermando che essa poneva impropriamente a carico
delle generazioni future il peso dei debiti pregressi, e ora gli enti locali dovrebbero rientrare degli ingenti debiti accumulati in 3-4 anni, azzerando – per i futuri sindaci – ogni spazio
decisionale di bilancio.
È del tutto evidente che a questa situazione non si doveva arrivare, ma è altrettanto evidente che da questa situazione si deve in qualche modo uscire. Con pazienza, misura ed equilibrio, senza stremare nel presente le comunità territoriali e senza azzerare il ruolo dei sindaci, prima espressione del voto popolare, che resta l’architrave dei moderni sistemi di democrazia rappresentativa.
Il dibattito in corso deve proseguire, e concentrarsi su questi punti, perché è solo con una grande discussione pubblica che si potrà, spero, trovare un percorso di soluzione (quando servono leggi migliori, quelle esistenti si cambiano) alla difficoltà di trovare candidati sindaci, cioè, in generale, competenze
ed energie che vogliano mettersi al servizio di una comunità.
A questo importante dibattito pubblico è utile a mio avviso che partecipi, attivamente, anche la magistratura italiana, nelle sue espressioni rappresentative.
Lo dico da magistrato, da pubblico ministero, da componente elettivo dell’organo di autogoverno di una delle magistrature italiane. E dico “espressioni rappresentative” perché magistrati italiani che il tema del ruolo del sindaco se lo sono già posti da cittadino, a titolo individuale, raccogliendo la sfida
in prima persona, non ne mancano: da Luigi Bobbio a Michele Emiliano, da Luigi De Magistris a Catello Maresca,
solo per citare i casi più noti.
Si tratta di risposte individuali (da rispettare e che nel contempo pongono la questione, ampia e delicata, e senz’altro da risolvere, del rientro in magistratura, o meno, alla fine dell’esperienza politica) a una questione nazionale.
Ma la risposta a una questione nazionale non può essere rimessa soltanto a espressioni individuali.
La legge Calderoli e l’eterno ritorno del residuo fiscale
di Floriana Cerniglia (*)