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I conti del Piano Juncker: in Italia 46 miliardi di investimenti e 213mila Pmi aiutate

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L’Italia arriva al consuntivo del primo piano Juncker con 46,4 miliardi di investimenti sostenuti, secondo risultato in Europa dopo la sola Francia, e con il record europeo di 213mila imprese coinvolte nell’aiuto a nuovi progetti. Numeri che offrono una base incoraggiante per il piano 2.0, pronto a partire dopo l’approvazione del regolamento a dicembre scorso.

Le cifre, presentate ieri mattina nella sede romana della Bei dal vicepresidente Dario Scannapieco, entrano a piedi uniti nel dibattito che proprio intorno alla dinamica degli investimenti italiani divide i critici dell’Europa matrigna e i fautori della Ue come soluzione del problema. Ma più delle ricadute politiche è importante guardare ai dati di un «piano» che era partito tra lo scetticismo generalizzato, e che invece in Italia ha dato più risultati che altrove. Anche perché la voce «investimenti» continua a rappresentare il grande malato dell’economia del nostro Paese nel confronto internazionale.

Se l’Europa ha recuperato i livelli pre-crisi, l’Italia resta ancora sotto di circa un quinto (17,5% del Pil nel 2017 contro il 21,6% di dieci anni prima), perché mentre il settore privato ha riavviato i motori quello pubblico continua a flettere. «La ripresa è stata trainata dalle imprese - spiega Dario Scannapieco - e Industria 4.0 ha funzionato. Per quelli pubblici si può accelerare sugli interventi programmati, ma vanno ricostruite le strutture tecniche delle amministrazioni locali e rafforzato il coordinamento centrale sul modello di eccellenza che è stato seguito sull’edilizia scolastica».

Il meccanismo del piano è a domino. E parte dalla garanzia Ue attraverso il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis, guidato da Scannapieco), che permette alla Banca europea degli investimenti di intervenire su tranche subordinate, con un profilo di rischio maggiore rispetto alle operazioni ordinarie, aprendo quindi i terreni più “sicuri” agli altri investitori. Nasce così l’effetto leva che moltiplica i numeri dello stanziamento iniziale: il fondo europeo vale 21 miliardi tra garanzia Ue e intervento diretto della Bei, per tre quarti dedicati alle infrastrutture e per il resto alle imprese, ma ha attivato finanziamenti per 65,5 miliardi che hanno mobilitato investimenti per 335. L’Italia ha raccolto il 15,2% delle operazioni (137 su 898), ma anche per la sua geografia economica reticolare totalizza da sola il 30% abbondante delle piccole e medie imprese coinvolte nei progetti. Perché anche fuori dai confini del piano Juncker è la rete delle imprese uno degli obiettivi chiave di Bei in Italia, rilanciato dai risultati raggiunti dall’intesa con Confindustria del marzo 2017.

La traduzione concreta delle cifre appena elencate si sviluppa infatti in progetti infrastrutturali, in un ventaglio che da strade e ferrovie si allarga a alle «infrastrutture sociali» come ospedali e scuole, e piani di sviluppo e innovazione di settori e imprese. L’obiettivo comune è la creazione di Pil e posti di lavoro, in uno sviluppo che però richiede tempi lunghi.
A livello continentale le stime ufficiali parlano di un picco da 1,4 milioni di posti di lavoro aggiuntivi nel 2020 e di un effetto strutturale da circa 5-600mila posti nel lungo periodo, e sul Pil si punta a un contributo massimo dell’1,3% nel 2020 per stabilizzarsi intorno allo 0,6% più avanti. In entrambi i casi la gobba si spiega con il fatto che l’investimento libera l’energia maggiore all’inizio, con la costruzione dell’opera o l’avvio dell’innovazione di processo o di prodotto, e poi si attesta su un contributo stabile più basso.

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