Il «silenzioso abbandono» vanifica le nuove assunzioni
Una riforma che non richiede leggi è il contrasto al fenomeno di bassa motivazione e impegno che da anni interessa la Pa e trova oggi un’espressione inglese: è il «quiet quitting», il silenzioso allontanamento dall’impegno sul lavoro che porta a non essere disponibili a straordinari, gruppi di lavoro, progetti o percorsi di formazione. Si fa lo stretto necessario per cui si è pagati, destinando ad altro forze ed energie residue. Questo comportamento abbassa la produttività e favorisce l’obsolescenza delle competenze. L’«abbandono lavorativo» è frutto in gran parte di una cattiva gestione delle risorse umane e di errori che spesso partono già dal reclutamento, soprattutto nelle grandi organizzazioni. La cattiva o assente gestione delle risorse umane si manifesta con carriere flat, esperienze professionali povere, bassa condivisione su obiettivi, strategie e risultati, scarso riconoscimento del merito e delle competenze e retribuzioni che non premiano la qualità della prestazione. La Pa, che ha spesso gestito il personale con la garanzia del «posto a vita», si trova oggi in crisi di fronte a un’offerta di lavoro più esigente che in un contesto quanto mai incerto rivede il proprio salario di riserva verso l’alto dando valore al tempo libero più che al lavoro. Il lavoro da remoto ha rafforzato l’idea in molti che le cose possono andare avanti lo stesso anche se si è assenti. Al contempo prassi vuole che il dirigente si appoggi ai pochi che considera bravi, abbandonando i meno adeguati/preparati e favorendo i fenomeni di disimpegno precoce. Gli sprechi nella Pa non riguardano solo le risorse economiche ma anche il capitale umano, nonostante il Dlgs 29 del 1993 indicasse tra le finalità quella di «realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle Pa».
A monte c’è l’idea di un dirigente che considera il personale una “rogna” da delegare all’ufficio competente. Poche le leve monetarie a disposizione dalla contrattazione collettiva; ignorate e poco utilizzate quelle non monetarie. Inoltre i pochi corsi di formazione “sul personale” per i dirigenti riguardano profili come l’anticorruzione e il codice disciplinare e non la capacità di valorizzare le risorse umane.
Bene quindi ha fatto il neo Ministro per la Pa Paolo Zangrillo a parlare di impegno nel motivare il personale e nell’aiutare i dirigenti a riattivare i dipendenti. Non possiamo solo pensare ad assumere nuovo personale, quanto mai necessario soprattutto se qualificato, ma occorre non perdere quello che abbiamo in servizio. Molto dipende da come i dirigenti e gli uffici del personale interpretano il proprio ruolo.
Che fare? Investiamo negli uffici del personale e rendiamo i dirigenti veri datori di lavoro. Responsabilizziamoli sull’organizzazione del lavoro da remoto, sulla formazione e sull’utilizzo migliore degli istituti più innovativi della contrattazione collettiva. Diversamente da quanto è accaduto finora. Utilizziamo al meglio le risorse per la formazione oggi a disposizione (Pnrr, fondi UE ed ordinari) concentrandole su priorità come la cura del capitale umano.
Eseguiamo periodicamente l’assessment delle competenze, verificando le esigenze di aggiornamento e di riqualificazione. Puntiamo sulle specializzazioni creando delle Academy aziendali per settori o per professionalità. Consapevoli che una riforma non richiede solo leggi e risorse finanziarie, ma anche una buona gestione del personale.