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Riuso di inerti/2: le norme inattuate, l'inerzia delle Pa appaltanti, il caso virtuoso del Veneto

di Brunella Giugliano

Non decolla il mercato del riciclo dei rifiuti inerti da edilizia, e cioè i materiali derivanti da attività di costruzione e demolizione (C&D), reimpiegabili all'interno dello stesso processo produttivo edilizio al posto degli inerti naturali.

Pregiudizi, inefficienze e norme inattuate ne frenano lo sviluppo, nonostante si tratti (previa analisi) di rifiuti non inquinanti ed esistano tecnologie che consentono di reimmetterli nel processo edilizio. Il Ministero dell'Ambiente riconosce la necessità di implementare politiche idonee a favorire il riciclo e il recupero di tali rifiuti, come ad esempio incentivi al settore, piani di sviluppo industriale e strumenti che diano maggiori garanzie sulla qualità dei prodotti. Ma le iniziative ad oggi messe in campo sono poco più che intenzioni.

Legambiente e Anpar, l'associazione di Confindustria che raccoglie le imprese specializzate in riciclo di rifiuti da edilizia, denunciano che, ad eccezione di alcuni casi sporadici (vedi il Veneto), la diffusione di materiali C&D (construction & demolition) provenienti dal recupero ha di fronte ancora forti ostacoli. Oltre a mancare norme in grado di incentivare realmente l'utilizzo degli aggregati riciclati e una maggiore tutela del territorio e dell'ambiente, secondo le due associazioni sono assenti regolamenti tecnici e ambientali univoci sulle caratteristiche dei materiali riutilizzabili in edilizia.

Lamentano, inoltre, una scarsa attitudine delle stazioni appaltanti a recepire nei capitolati di gara le norme nazionali ed europee sul settore, a cui si aggiunge una diffidenza ancora dilagante sulla qualità di tali inerti a seguito dei processi di riciclo. Uno stallo che ha forti ripercussioni sulle aziende del settore che, secondo l'Anpar, dall'inizio della crisi (2008) ad oggi hanno subito un calo di fatturato che oscilla tra il 30 e il 50%.

A loro sostegno, secondo il Ministero dell'Ambiente, guidato da Gianluca Galletti, ci sono alcune indicazioni del Ddl «Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali» (Collegato Ambiente 2014) approvato in Senato il 4 novembre scorso, che prevede all'articolo 15 la possibilità di erogare (a risorse vigenti, senza cioè stanziamenti ad hoc) incentivi per chi produce, commercializza o utilizza materiali derivanti dal riciclo dei rifiuti (da edilizia come altri rifiuti), mediante accordi e contratti di programma tra i ministri del'Aambiente e dello Sviluppo economico.

Le prime criticità riguardano i dati sulla produzione dei rifiuti da C&D e la percentuale di riciclo. Secondo l'Ispra- l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale - in Italia ne vengono prodotte circa 48 milioni di tonnellate (dato 2013) che vengono smaltiti in discarica o presso impianti di riciclo. Essi rappresentano il 37,4% del totale dei rifiuti del settore industriale.

L'Ispra, inoltre, certifica che, dopo il Dlgs 205/2010 - con cui il Governo ha recepito la Direttiva 2008/98/CE che prevede che entro il 2020 i Paesi dell'Unione Europea raggiungano un obiettivo pari al 70% del riciclo - l'Italia ha già superato la percentuale fissata dalla Ue, attestandosi al 75%. Un dato che dovrebbe far ben sperare, ma che per Anpar e Legambiente è parziale e inattendibile, poiché non conteggia lo smaltimento illegale. «Ancora troppo spesso - spiega Paolo Barberi, Presidente Anpar - i materiali di risulta vengono stoccati in discariche abusive, nei cassonetti (soprattutto nelle piccole ristrutturazioni), o riutilizzati in altri cantieri senza trattamento».

La percentuale di riciclo viene calcolata dall'Ispra attraverso le informazioni contenute nel Modello unico di dichiarazione ambientale (Mud). Ma la sua compilazione è obbligatoria solo per i soggetti che effettuano operazioni di recupero e smaltimento di tali inerti, mentre le imprese di costruzione sono esentate. Lo stesso Ministero dell'Ambiente ammette che «la metodologia di calcolo comporta una serie di criticità derivanti dal reperimento dei dati. Infatti, la produzione dei rifiuti da C&D è un dato stimato». Tanto che Legambiente, nel rapporto «Recycle: la sfida nel settore delle costruzioni» presentato agli inizi di novembre, parla per l'Italia di una percentuale di riciclo inchiodata addirittura al 10%, contro il 90% dell'Olanda, l'87% del Belgio, l'86% della Germania.

Eppure tale attività ha grandi potenzialità. Si legge nel documento dell'associazione ambientalista che «arrivando al 70% di riciclo si genererebbero oltre 23 milioni di tonnellate di materiali che permetterebbero di chiudere almeno 100 cave di sabbia e ghiaia per un anno». Oltre che per questioni ambientali, ci sarebbe convenienza anche per le imprese di costruzione, con oneri dimezzati per lo smaltimento dei "calcinacci" in impianti di riciclo (in media 5-6 euro a tonnellata rispetto ai 10-11 per il conferimento in discarica) e per l'acquisto degli aggregati da costruzione (3-4 euro a tonnellata rispetto agli 8-10 per l'acquisto da cava).

Secondo il Ministero dell'Ambiente «per sostenere maggiormente una economia circolare del settore bisogna sviluppare imprese che riciclino e recuperino tali rifiuti per ottenere nuovi prodotti. Ma i procedimenti istruttori per il rilascio delle autorizzazioni non prevedono la partecipazione del Ministero in nessuna fase». Tale compito è demandato, infatti, alle autorità competenti territoriali. «Ogni Regione - spiega Barberi, presidente Anpar - utilizza un diverso iter autorizzativo, e per ottenere le autorizzazioni spesso i tempi sono lunghissimi».

Perché questo processo vada avanti, infatti, servono riferimenti normativi chiari. Il Dlgs 205/2010, che ha recepito la Direttiva 2008/98/CE, prevede tra l'altro che si adottino, attraverso Decreti attuativi dei Ministeri dell'Ambiente e dello Sviluppo economico, criteri per favorire il riutilizzo degli inerti. Ma al momento nulla è stato fatto. Nel documento di Legambiente si parla di «un'occasione sprecata, come avvenuto con l'applicazione del DM Ambiente 203/2003».

Quest'ultimo, infatti, è completamente inattuato. Esso prevedeva, per le società a prevalente capitale pubblico, di coprire il 30% del proprio fabbisogno annuo di beni e manufatti con prodotti da materiale riciclato. «Non è mai stato redatto l'elenco di imprese abilitate ("repertorio") – continua Barberi – e nel 2009 è stato anche cancellato l'organo del Ministero dell'Ambiente che se ne doveva occupare, l'Osservatorio nazionale rifiuti».

Inoltre, in base alla direttiva Ue 1989/106, recepita in Italia con il Dm Ambiente 11/04/2007, per poter riutilizzare in edilizia i prodotti derivanti dal riciclaggio di rifiuti, questi devono avere la marcatura CE (come tutti gli altri prodotti da costruzione). «È un obbligo di legge - sostiene il Presidente dell'Anpar - per cui le nostre aziende sostengono costi non indifferenti. Ma molti non lo fanno e i controlli sono praticamente inesistenti. La marcatura CE, inoltre, non viene richiesta, neanche dalle stazioni appaltanti pubbliche».

L'Anpar chiede, inoltre, che venga emanato un provvedimento che stabilisca criteri e condizioni affinché un rifiuto, dopo essere stato sottoposto a recupero, cessi di essere tale. Il Ministero all'Ambiente fa sapere che sul tema, in accordo con i Ministeri della Salute e dello Sviluppo Economico, è stato istituito uno specifico gruppo di lavoro.

Un piccolo passo in avanti è rappresentato dalla norma UNI 11531-1 "Costruzione e manutenzione delle opere civili delle infrastrutture. Criteri per l'impiego dei materiali" dell'aprile 2004, che fornisce indicazioni specifiche sulla classificazione delle terre, sulla designazione degli aggregati e delle loro miscele e sui criteri per la verifica di conformità. Essa, inoltre, indica i valori di riferimento per le caratteristiche tecniche in relazione a ciascuna destinazione d'impiego. Ma anche tali previsioni hanno scarsa applicazione negli appalti.

Le grandi stazioni appaltanti sembrano non aver ancora colto le opportunità offerte dall'utilizzo degli aggregati riciclati. Ad esse Legambiente, nel corso degli anni, ha chiesto se venissero utilizzati questi materiali in alcuni grandi cantieri italiani, ma le risposte, come si legge nel Dossier, «mostrano mancanza di conoscenza della qualità degli aggregati riciclati e poche informazioni sul reperimento dei materiali. Ad influenzare l'esito finale anche le scelte progettuali e quelle delle Direzioni Lavori».


ISPRA: «MA I NOSTRI DATI SONO BUONI»
«Per migliorare la tracciabilità dei rifiuti speciali non pericolosi è necessario estendere l'obbligo di presentare il Mud a tutte le imprese, indipendentemente dal settore e dai dipendenti». È quanto propone Rosanna Laraia, Responsabile Servizio Rifiuti di Ispra, per intercettare la quota di smaltimento illecito, che sfugge al monitoraggio.

Dottoressa, quale anomalia riscontra?

Il problema è all'origine e bisogna colmare alcune lacune legislative. Le difficoltà nella tracciabilità riguardano tutte le tipologie di rifiuti speciali non pericolosi e non solo quelli che provengono dall'edilizia. Per comprendere il fenomeno, basti pensare che sono esonerate dalla presentazione del Mud, oltre ai costruttori (la stessa esenzione riguarda anche l'agroindustria), tutte le imprese che hanno meno di dieci dipendenti, di qualsiasi settore. Va da sé che potrebbe sfuggire dal nostro controllo parte del tessuto produttivo nazionale che è costituito principalmente da micro aziende.

Cosa risponde ad Anpar e Legambiente che sostengono che la percentuale di riciclo calcolata da Ispra è parziale?

Che i nostri sono gli unici dati ufficiali esistenti e la validità e la correttezza del nostro metodo di rilevazione è riconosciuta da Eurostat a cui presentiamo i risultati. La nostra percentuale, inoltre, è in linea con quella degli altri Paesi europei. Non possiamo credere in un'illegalità diffusa. Mettiamo le diverse posizioni a confronto e incrociamo i diversi strumenti di verifica, qualora vi fossero.

Come viene effettuato il monitoraggio?

Analizziamo i Mud presentati ogni anno alle Camere di Commercio da migliaia di aziende che effettuano operazioni di recupero e smaltimento. Si parte, quindi, dal quantitativo che arriva nelle discariche e nei centri di riciclaggio. Dal dato complessivo viene sottratta la quota dell'export e viene aggiunta quella dell'import. Eliminiamo, poi, i quantitativi delle fasi intermedie di lavorazione, come ad esempio le parti selezionate preventivamente e che non vengono riciclate. Calcoliamo, inoltre, la quota di stoccaggio. Come vede è un lavoro certosino, effettuato dichiarazione per dichiarazione. Ma non è tutto. Ottenuto il dato complessivo, lo incrociamo con gli indicatori socio economici delle aziende, come il fatturato e il numero di dipendenti.

Contattando oggi Anas ed Rete Ferroviaria Italiana, si scopre che poco o nulla è cambiato. L'Anas, in particolare, fa sapere che sta effettuando una revisione dei propri capitolati speciali di appalto, con incontri svolti e di prossima programmazione con Anpar e Legambiente. «Stiamo inoltre valutando – spiega in una nota - l'implementazione, per le imprese affidatarie, di certificazione ambientale per la gestione dei cantieri, laddove non previsto da normativa». Rfi, invece, sembra più concentrata a come gestire lo smaltimento di tali inerti nei propri cantieri. «Nel 2014 – fa sapere – Rfi ha prodotto circa 115mila tonnellate di rifiuti da C&D, il 75% circa dei quali classificati come rifiuti non pericolosi. Nella loro gestione, Rfi ha da tempo adottato politiche che favoriscono l'avvio degli stessi al recupero».

IL CASO VIRTUOSO DEL VENETO

Una buona prassi sul riutilizzo degli inerti in edilizia arriva dal Veneto, prima Regione in Italia per riciclo di materiali C&D (95%, secondo i dati forniti dalla stessa Regione). L'amministrazione, infatti, già nel luglio dello scorso anno, ha varato la Delibera 1060/2014 che fornisce modalità operative, sia per lavori pubblici che privati, per il recupero di rifiuti speciali non pericolosi finalizzato alla produzione di materiali riutilizzabili nel settore delle costruzioni.

Con il testo, in particolare, sono individuate le «Norme tecniche e ambientali per la produzione dei materiali riciclati per opere edili, stradali e recuperi ambientali», un documento di indirizzo in cui sono messe nero su bianco le caratteristiche che devono avere determinati "prodotti di recupero" derivanti da attività di riciclo di rifiuti non pericolosi, quali laterizi, murature, frammenti di conglomerati cementizi, rivestimenti e prodotti ceramici, intonaci. Tali materiali, infatti, se lavorati con le modalità definite nella delibera, ottengono una certificazione di qualità, tale da renderli affidabili per il loro utilizzo in tre diversi ambiti: lavori di nuova costruzione e di manutenzione stradale; interventi di realizzazione e manutenzione in generale; recuperi ambientali. «E' uno strumento con cui tentiamo di immettere sul mercato elevate quantità di prodotti di recupero, altrimenti non utilizzati» – commenta Massimo Ingrosso, del Dipartimento Ambiente Settore Gestione dei rifiuti del Veneto. In regione vengono prodotte circa 5,1 milioni di tonnellate annue di rifiuti da costruzione e demolizione. Di questi, ben il 95% viene riciclato.

Sulla base di queste performance l'amministrazione regionale ha predisposto nel 2013 un tavolo di lavoro a cui hanno partecipato rappresentanti delle Province, dell'Arpav, di Confartigianato e di Confindustria. «Le risultanze di tale confronto sono state inserite nella delibera, con cui abbiamo cercato di concertare le esigenze di tutti» afferma il dirigente. E relativamente al mercato di sbocco degli aggregati riciclati aggiunge: «E' difficile stabilire quanto effettivamente viene riutilizzato in lavori. Spesso il mercato segue altre logiche e, ancora oggi, sul tema permane una certa diffidenza da parte dei direttori dei lavori, anche a causa di alcuni precedenti non edificanti di gestioni fraudolente. Inoltre, a seguito della crisi economica, è progressivamente calato il prezzo delle materie prime (ad esempio la ghiaia) e la convenienza del materiale riciclato non è così evidente come un tempo. Il beneficio, però, non deve essere solo economico, ma soprattutto ambientale. Le stazioni appaltanti stanno cominciando a recepire, pure se con lentezza, il vantaggio che ne deriva, anche grazie al lavoro degli operatori».

Ed in Veneto è presente la Eco.Men, l'azienda del Gruppo Me.Fin di Carmignano (Padova) che dal 1998 produce materiali riqualificati. L'azienda gestisce un impianto della potenzialità di circa 700.000 tonnellate. Produce brevetti come l'Econcrete, un prodotto composto da materiale di costruzione e demolizione, sabbia di fonderia e fusione, legante idraulico ed acqua, impiegato in opere quali il passante di Mestre e la terza corsia dell'Autostrada A4 (Quarto d'Altino – San Donà di Piave). «La delibera regionale è un'ottima iniziativa– spiega Alessio Velo responsabile di Eco.Men - Purtroppo nei capitolati di gara tali indicazioni non sempre sono recepite. Per questo, nella maggioranza dei casi, siamo noi a proporci a stazioni appaltanti e aziende aggiudicatarie». Anche la Eco.Men ha risentito della crisi del settore delle costruzioni e della diffidenza che ancora caratterizza il mercato. Il suo fatturato, infatti, è passato dai 7 milioni del 2013 ai 4,5 dello scorso anno. Il materiale trattato, nel 2013 è stato di circa 250mila tonnellate, mentre nel 2014 di 150mila.


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