Fisco e contabilità

Sanità, spesa al lumicino: -52% rispetto alla Germania

Pesa la stagnazione ventennale che ha ridotto i margini ma le uscite sono cresciute meno del Pil

di Gianni Trovati

Le crisi si pagano. E ci sono modi concreti per misurarne il prezzo. Una via efficace può essere quella di spulciare le tabelle che la Corte dei conti ha elaborato nelle 256 pagine del nuovo referto al Parlamento sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali (delibera 19/2022 della sezione Autonomie, pubblicata ieri). I passaggi più significativi mettono a confronto la spesa pubblica italiana con quella dei principali Paesi europei: e disegnano i contorni di una distanza siderale.

La spesa sanitaria pro capite in Italia si ferma a 2.851 dollari all’anno (2.637 euro). A parità di potere d’acquisto, si tratta del 51,7% in meno dei 5.905 dollari pro capite spesi in Germania e del 38,4% in meno dei 4.632 dollari a testa utilizzati dai francesi, mentre rispetto al Regno Unito (4.158 dollari) la distanza è del 31,4%.

Abissi. Scavati da un problema che, si diceva, è strutturale, e non è stato generato dal Covid che ha solo esacerbato in termini di mancate cure e di liste d’attesa bibliche lo stress di un sistema in carenza cronica di risorse umane e finanziarie. La pandemia ha prodotto anche da noi un’accelerazione della spesa, che per esempio nel 2020, anno di debutto del virus, è cresciuta dell’8,4%: un po’ meno che in Regno Unito (+20,2%), Germania (+9,7%) e Spagna (+9,5%) e un po’ più che in Francia (+5%), ma tutto sommato all’interno di un’oscillazione “europea”. Il fossato è stato scavato in tempi più lunghi, e precedenti alla pandemia: rispetto al 2008, l’Italia ha fatto crescere nel 2019 il proprio impegno pubblico in sanità del 15,4%, mentre la spesa cresceva del 34,5% in Francia, del 40,1% nel Regno unito e dell’81,4% in Germania.

Certo, si dirà: il confronto è macchiato dal fatto che in Germania, Francia o Regno Unito anche il Pil è più robusto del nostro. Ma l’obiezione non coglie nel segno. Perché anche in rapporto al Pil il dato italiano scompare nel paragone con gli altri Paesi europei: da noi la spesa sanitaria vale il 7,1% del prodotto, una quota superiore solo al 5,9% greco, mentre in Spagna sale al 7,8%, nel Regno Unito è al 9,9% e in Francia e Germania vola rispettivamente al 10,3% e al 10,9%. Che cosa contraddistingue l’Italia, allora?

Due fattori, che incrociano in modo esplosivo la stagnazione ventennale del Paese e le scelte di policy, con cui l’Italia ha raggiunto altri primati (mondiali) come quello della spesa previdenziale in rapporto al Pil. In sintesi estrema: nell’ultimo quindicennio un’Italia con margini fiscali sclerotizzati dalla stagnazione rinunciava all’aumento della spesa sanitaria reso necessario dall’evoluzione delle cure e dall’invecchiamento della popolazione, mentre gli altri Paesi con le loro economie in crescita seguivano questi stessi fenomeni con fondi in aumento.

E come tutte le crisi, anche quella della spesa sanitaria alimenta le disuguaglianze, che in Italia sono prima di tutto territoriali. Lo dimostra la griglia dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, che riassume in un punteggio sintetico i risultati regionali in 22 indicatori. I 125 punti raggranellati dalla Calabria, la regione peggiore, mostrano che gli italiani a Catanzaro o Crotone hanno diritto a poco più della metà della sanità disponibile in Veneto e Toscana, le regioni migliori con 222 punti seguite a ruota da Emilia Romagna (221) e Lombardia (215). In una forbice che il Pnrr può solo provare a scalfire.

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