Progettazione

Consiglio di Stato: la variante urbanistica «semplificata» ha carattere eccezionale e derogatorio

di Giuseppe Donato Nuzzo

La variante urbanistica semplificata ex articolo 5 del Dpr 447/1998 ha carattere eccezionale e derogatorio. Pertanto, non può essere utilizzata come modalità "ordinaria" di variazione dello strumento urbanistico generale. Affinché tale procedura possa essere applicata, occorre preventivamente accertare, in modo oggettivo e rigoroso, i presupposti richiesti dalla norma, tra cui l'assenza nello strumento urbanistico di aree destinate a insediamenti produttivi l'insufficienza di queste (Consiglio di Stato, con sentenza 8 gennaio 2015, n. 27).

Il caso
La pronuncia in commento riguarda gli atti relativi all'apertura di una struttura di vendita rilasciata dal Comune, ricadente in area destinata dal Programma di fabbricazione a zona E («agricola semplice»). L'incompatibilità di detta destinazione con l'intervento richiesto aveva indotto il comune ad autorizzare l'apertura del punto vendita previa variante urbanistica semplificata, che ha modificato la destinazione delle aree da zona E a zona D («industriale-artigianale»).
La Srl titolare di altro esercizio di vendita, situato nelle immediate vicinanze del suolo interessato dall'intervento, impugnava la delibera di approvazione della variante urbanistica.
Per la ricorrente, il Comune aveva fatto ricorso alla variante in esame in assenza dei presupposti richiesti dalla legge.
Il Consiglio di stato, ribaltando la sentenza di primo grado del Tar, ha accolto il ricorso, ritenendo improprio l'utilizzo dello strumento della variante urbanistica semplificata da parte del comune.


Quando si può utilizzare la variante urbanistica semplificata?
I Giudici di Palazzo Spada ricordano anzitutto che l'articolo 5 del Dpr 447/1998 consente la variante in esame soltanto a condizione che «lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato».

Tale variante ha dunque carattere eccezionale e derogatorio e non può essere impropriamente trasformata in una modalità "ordinaria" di variazione dello strumento urbanistico generale. Pertanto, «perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo, occorre che siano preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla norma, tra cui l'assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi ovvero l'insufficienza di queste». In particolare, per «insufficienza» deve intendersi «una superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine all'insediamento da realizzare».

L'accertamento dei presupposti
Il concetto di sufficienza o insufficienza delle aree esistenti va verificato «in relazione al progetto presentato». Ciò significa che esiste un margine di flessibilità e adattabilità di quest'ultimo. Resta fermo, però, che «il parametro di riferimento è costituito dallo strumento vigente, il quale non può essere esso oggetto di modifiche per adeguarlo alle esigenze del proponente» (cfr. Consiglio di Stato, sezione 4, sentenza 3593/2007).
Nel caso specifico in cui il progetto riguarda un insediamento commerciale, e non produttivo, «il presupposto fattuale costituito dalla assenza o insufficienza nello strumento urbanistico di aree a destinazione specifica e coerente con il progetto va inteso nel senso della necessità di verificare preventivamente la disponibilità non soltanto di aree stricto sensu destinate a insediamenti produttivi (zone D), ma anche di aree con destinazione commerciale, anche se non in via esclusiva, quali certamente sono le aree con destinazione a zona C di espansione».

La soluzione del caso concreto
Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il giudizio del Comune sulla "insufficienza" delle aree esistenti nel Programma di fabbricazione sia scaturito non già da una ritenuta insufficienza delle superfici, ma da un apprezzamento tecnico-discrezionale dell'impatto che la realizzazione della struttura avrebbe avuto sulle diverse e residue destinazioni impresse alle medesime aree. Da qui l'utilizzo improprio della variante.
Per i giudici amministrativi, infatti, è «molto discutibile che in tal modo possa dirsi integrato il presupposto normativo de quo, attraverso un quanto meno opinabile giudizio tecnico che ha portato il rappresentante del Comune in sede di Conferenza di servizi a sostenere che nelle aree in questione avrebbero potuto essere insediati solo esercizi di vicinato (limitazione, quest'ultima, non presente nelle disposizioni urbanistiche vigenti e che a sua volta è discesa dal suindicato apprezzamento tecnico-discrezionale)».

In realtà, l'inserimento della struttura commerciale nell'area in discorso e il suo raccordo con le altre destinazioni a questa impresse dal Programma di fabbricazione "era questione afferente alle modalità esecutive dell'insediamento e da affrontare in una alle altre problematiche connesse al rilascio dell'autorizzazione unica per l'esercizio commerciale".
Secondo il Consiglio, «l'aver elevato tale problematica a elemento impeditivo a monte dell'utilizzabilità delle aree in questione, in modo da integrare il presupposto normativo per procedere a variante urbanistica su altra e diversa porzione del territorio comunale, costituisce chiaro elemento indiziario di sviamento di potere, inteso a offrire ai proponenti il progetto la possibilità, non consentita alla stregua della vigente disciplina urbanistica, di operare su aree in loro proprietà non compatibili dal punto di vista urbanistico con l'insediamento de quo».

LE ULTIME DECISIONI PUBBLICATE SU PROBLEMI ATTUALI

EDILIZIA E URBANISTICA

Dia: l'efficacia è subordinata alla completezza e alla veridicità della documentazione
Presupposti indefettibili perché la Dia possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, per cui il decorso del termine di trenta giorni non legittima l'intervento edilizio se la dichiarazione non corrisponde al modello legale prescritto dalla legge, o comunque risulti inesatta o incompleta, sicché l'Amministrazione, in tale ipotesi, non decade dal potere di inibire l'attività o di sospendere i lavori (cfr. Tar Lazio, sezione 1, sentenza 5 aprile 2013, n. 3506). Tuttavia, l'inutile decorso del termine preclude al Comune di intervenire per paralizzare l'intervento, se ravvisi unicamente la necessità di integrare la documentazione accessoria da allegare alla denuncia, senza evidenziare ragioni sostanziali e concludenti che attengano al divieto di esecuzione dell'opera. In altri termini, la verifica sulla completezza della documentazione deve essere effettuata entro il termine assegnato dalla legge (che altrimenti non avrebbe ragion d'essere), il cui decorso consolida in capo all'interessato la facoltà di eseguire l'intervento. In diversa ipotesi si versa allorquando le ragioni del divieto di eseguire l'intervento poggino sulla difformità rispetto al titolo edilizio necessario o alle norme che presiedono all'attività edilizia e all'assetto urbanistico. In tal caso, l'intervento della Pa ha il suo fondamento nel generale e inconsumabile potere di repressione dell'attività edilizia contrastante con la normativa: anche dopo la scadenza del termine fissato dall'articolo 23, comma 6 del Dpr 380/2001, l'amministrazione conserva il potere di verificare se le opere possono essere realizzate sulla base della Dia e può esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall'ordinamento. (Amb.Dir.)
Tar Campania, Napoli, sezione 3, sentenza 13 gennaio 2016, n. 140

Tettoie o pensiline aperte su tre lati: il limite del 25% è un valore percentuale di massima
La circolare del Segretario Generale del Mibac n. 33/2009 (e segnatamente il punto 2, secondo cui: "per "superfici utili", si intende "qualsiasi superficie utile, qualunque sia la sua destinazione. Sono ammesse le logge e i balconi nonché i portici, collegati al fabbricato, aperti su tre lati contenuti entro il 25% dell'area di sedime del fabbricato stesso") non può integrare in maniera vincolante il precetto di cui all'articolo 167, comma 4 del Dlgs 42/2004. Per rispettare il dettato legislativo, va pertanto interpretata nel senso che l'indicazione del predetto limite del 25% vale unicamente come individuazione di un valore percentuale di massima, il cui eventuale superamento non impedisce, automaticamente e necessariamente, la sanabilità degli abusi cosiddetti minori, dovendo la decisione circa l'esito del relativo procedimento dipendere da una valutazione che si cali nel caso specifico, valutando il concreto impatto, sul paesaggio, delle opere realizzate (nella specie, di natura pertinenziale, quanto alla casistica delle tettoie – o pensiline – aperte su tre lati). (Amb.Dir.)
Tar Campania, Salerno, sezione 1, sentenza 13 gennaio 2016, n. 17


La rinuncia al permesso di costruire comporta la restituzione del contributo concessorio
Il contributo concessorio è strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio. Pertanto, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare. Ne deriva che, qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, sorge in capo all'amministrazione, ex articolo 2033 del Codice civile., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione nonché, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione; con la precisazione che il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente (cfr., fra le tante, Tar Puglia Bari, sezione 3, sentenza 17 marzo 2015, n. 420). (Amb.Dir.)
Tar Lombardia, Milano, sezione 2, sentenza 7 gennaio 2016, n. 12


APPALTI
Niente soccorso istruttorio nei casi di falsità idonea a determinare l'esclusione
L'articolo 38, comma 1, lettera f) del Dlgs 163/2006 è costantemente interpretata dalla giurisprudenza, in combinato disposto con il comma secondo del medesimo articolo 38, nel senso di imporre ai soggetti che concorrono per l'affidamento di contratti pubblici l'onere, a pena di esclusione, di dichiarare l'esistenza a proprio carico di pregresse risoluzioni contrattuali, ovvero, più in generale, di tutti i precedenti professionali dai quali desumere, secondo l'apprezzamento discrezionale dell'amministrazione procedente, l'(in)affidabilità del concorrente. Questi, in ossequio ai principi di lealtà, diligenza e buona fede che presiedono ai reciproci rapporti delle parti nella disciplina degli appalti pubblici, non può peraltro operare, in sede di domanda di partecipazione, alcun "filtro" sulle circostanze potenzialmente rilevanti ai fini delle valutazioni che incidono sulla sua moralità professionale ed affidabilità, trattandosi di valutazioni di esclusiva pertinenza della stazione appaltante: il giudizio di rilevanza di quelle circostanze non può, cioè, essere rimesso alla stessa parte interessata, che ne deve comunque fare dichiarazione in gara; e l'omessa dichiarazione di tali vicende determina la falsità che legittima, di per sé sola, l'esclusione. In tal caso non c'è spazio per il soccorso istruttorio tale istituto può essere invocato in caso di dichiarazione incompleta, irregolare o addirittura mancante, non già nell'ipotesi - totalmente diversa - di una dichiarazione esistente, ma scientemente difforme dalla realtà. (Amb.Dir.)
Tar Toscana, Firenze, sezione 2, sentenza 13 gennaio 2016, n. 11

Nessun diritto di prelazione del promotore se la gara è deserta
In tema di project financing, l'articolo 153 comma 19 del Dlgs 163/2006 prevede che solo in caso di aggiudicazione a favore di terzi il promotore può esercitare il diritto di prelazione, e quindi in caso di esclusione dell'unica partecipante (sia essa o meno la proponente stessa) mancano i presupposti per l'esercizio del diritto di prelazione, proprio perché manca una gara vinta da altri. In assenza di un utile esperimento di una gara, con almeno un'offerta valida, difatti, manca proprio la fase negoziale (ad evidenza pubblica), sulla cui base definire tutti gli aspetti economici e di dettaglio della concessione e su cui pertanto esercitare la prelazione. Alla gara deserta o alla esclusione dell'unica partecipante non consegue quindi un diritto soggettivo della promotrice alla stipulazione del contratto di concessione (cfr. Tar L'Aquila, sentenza 265/2011), salva ovviamente la possibilità per l'Amministrazione di valutare se ricorrano i presupposti per procedere a trattativa privata non essendo stata presentata alcuna offerta valida (cfr. Tar Bari, sentenza n. 3137/ 2010). (Amb.Dir.)
Tar Abruzzo, Pescara, sezione 1, sentenza 7 gennaio 2016, n. 4

Inquinamento mafioso: la stazione appaltante deve motivare l'interesse pubblico alla completa esecuzione del contratto
La facoltà di continuare il rapporto con imprese, nonostante il collegamento delle stesse con organizzazioni malavitose, prevista dall'articolo 94 del Dlgs 159/2011, è ipotesi - data l'evidente ratio di pieno sfavore legislativo alle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici - remota e residuale, e dunque consentita al solo fine di tutelare l'interesse pubblico attraverso una valutazione di convenienza in relazione a circostanze particolari, quali il tempo dell'esecuzione del contratto o la sua natura, o la difficoltà di trovare un nuovo contraente, se la causa di decadenza sopravviene ad esecuzione ampiamente inoltrata (cfr. Consiglio di Stato, sentenza 197/2012); pertanto, la stazione appaltante, mentre può richiamare l'informativa a supporto della decisione di risolvere il contratto, senza addurre particolari giustificazioni, ha viceversa il dovere di motivare adeguatamente nel caso in cui, nonostante la presenza di un inquinamento mafioso, l'interesse pubblico alla completa esecuzione del contratto è così pregnante da legittimare un'impresa sospetta ad effettuare lavori pubblici (Tar Napoli, sentenza n. 860/2014). Nel caso di cui all'articolo 32 del Dl 90/2014 (impresa sottoposta a gestione straordinaria) , viceversa, la valutazione non è rimessa alla Stazione appaltante e non riguarda la scelta se far completare o meno l'appalto ad un'impresa in cui sussistono infiltrazioni mafiose; si tratta di una valutazione che è viceversa rimessa al Prefetto e riguarda una misura che mira a sterilizzare tale condizionamento mafioso, consentendo così una gestione da esso immune, che priva quindi le stazioni appaltanti del potere di recedere sulla base del mero presupposto dell'interdittiva antimafia.
Tar Abruzzo, Pescara, sezione 1, sentenza 4 gennaio 2016, n. 1

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