Personale

La Pa dimenticata: in Italia spesa reale giù del 14,9% mentre la Ue cresce del 12%

Solo Grecia e Ungheria hanno ridotto più di noi l’impegno finanziario fra 2003 e 2023

di Gianni Trovati

Le liste d’attesa infinite anche quando gli esami sono urgenti, le corsie degli ospedali e i Pronto soccorso svuotati di medici che in parte ritornano come gettonisti, gli uffici tecnici e amministrativi degli enti locali senza personale che mettono a rischio l’attuazione del Pnrr, i 4 ispettori che dovrebbero controllare la sicurezza del lavoro nelle 400mila aziende fra Milano, Monza e Lodi, i 150 che dovrebbero verificare le condizioni di treni, metropolitane, seggiovie e funivie in tutta Italia e ora minacciano lo sciopero perché la pianta organica prevede un numero doppio di persone in campo.

La cronaca arricchisce ogni giorno l’aneddotica sulle difficoltà di questo o quel ramo della Pubblica amministrazione italiana. Ma ciascuna di queste storie è solo un tassello di un mosaico molto più ampio, che ritrae il panorama di una Pa desertificata da un lungo e costante disinvestimento.

La spiegazione più chiara arriva, come sempre, dai numeri. Le cifre della finanza pubblica che si incontrano nelle banche dati della commissione europea illuminano bene la posizione italiana nel quadro continentale. Un indicatore utile per iniziare il confronto, in quanto semplice, efficace e immediatamente confrontabile, può essere rappresentato dal costo del personale pubblico, quel «capitale umano» il cui rilancio è diventata la parola d’ordine da quando sull’orizzonte del Paese si sono affacciati i 191,5 miliardi di investimenti del Pnrr. Le cifre in effetti dicono che c’è molto da rilanciare. Perché oggi quasi nessun Paese europeo investe così poco nel personale della sua Pubblica amministrazione.

In Italia quest’anno il costo del lavoro pubblico sarà pari al 9,5% del Pil. Nella Francia tradizionalmente in vetta a questo tipo di classifiche la stessa voce raggiunge il 12,3% del prodotto, quota seconda solo a quella toccata nei nordici (e piccoli) Paesi come Danimarca, Belgio e Finlandia. In Spagna la spesa per il personale pubblico arriva all’11,5% del Pil e anche Portogallo e Grecia, nonostante le violentissime crisi di finanza pubblica vissute una quindicina di anni fa, si attestano sopra al 10 per cento. Sotto quella soglia, oltre all’Italia, si incontrano Romania, Olanda e Irlanda. E una Germania dove però il Pil è doppio rispetto a quello italiano.

Ma è la storia vissuta dalla finanza pubblica negli ultimi vent’anni a indicare in modo chiaro come si è arrivati fin qui. Perché è una storia in cui l’Italia va in netta controtendenza alle dinamiche europee.

Rispetto a vent’anni fa, la spesa per il pubblico impiego da noi è aumentata del 28,8% in termini nominali, passando dai 146,5 miliardi di euro del 2003 ai 188,7 messi a bilancio quest’anno. Ma l’incremento è solo apparente, perché depurato dall’inflazione del periodo il valore reale di questa voce si è ridotto del 14,9 per cento.

Una dinamica simile si incontra solo in Grecia, Portogallo e Ungheria, proprio per i cortocircuiti dei bilanci pubblici di quei Paesi, mentre in tutto il resto d’Europa la direzione è opposta. La stessa Germania ha aumentato in vent’anni la propria spesa reale del 13,4%; la Francia, che come visto già partiva alta, l’ha fatta crescere del 9,3% mentre in altri Paesi come Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria o Spagna l’incremento della spesa reale viaggia a ritmi compresi fra il 16,5 e il 27,1%. Fuori quota, per ragioni ovvie, gli Stati dell’Europa dell’Est che in questo ventennio hanno completato il processo di ricostruzione di una Pa a livelli occidentali.

I critici della presunta austerità italiana e i teorici dei danni prodotti dall’altrettanto presunto neoliberismo dominante nel Paese cercheranno in questi numeri la conferma alle loro tesi. Ma le cifre raccontano un’altra storia. Quella di un Paese che nel confronto con il 2003 ha vissuto un aumento imponente nella spesa pubblica complessiva, che vent’anni fa era a un 47,2% del Pil pienamente in linea con la media Ue (47,8%) mentre ora è volata al 53,3% del prodotto, un livello molto superiore alla media continentale che si ferma al 49,7%.

La causa, allora, va ricercata nelle scelte politiche che senza combattere la stagnazione ventennale del Paese ne hanno sclerotizzato il bilancio pubblico gonfiando voci come la spesa previdenziale e il debito pubblico con il suo carico di interessi. Senza crescita, si è ridotto lo spazio per le altre politiche, che sono state fuori dalla lista delle priorità per lungo tempo: con una scelta di cui oggi si paga il conto.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©