Personale

L'aspettativa non retribuita non esonera dall'obbligo dell'autorizzazione a svolgere attività esterna

In caso contrario non sono valutabili ai fini pensionistici i contributi versati il periodo presso terzi

di Claudio Carbone

Non sono valutabili ai fini pensionistici i contributi versati a favore del dipendente pubblico per il periodo lavorativo trascorso presso terzi e svolto in posizione di aspettativa non retribuita nel caso in cui manchi la comunicazione all'ente datore di lavoro e all'ente previdenziale. In tali casi, infatti, il lavoratore incorre nella violazione delle norme che vietano ai dipendenti pubblici l'espletamento di attività retribuite incompatibili con tale status se non dopo aver chiesto specifica autorizzazione alla propria amministrazione.
È quanto stabilito dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale d'appello per la Regione Siciliana, con la sentenza n. 6/2022 che con l'occasione individua il perimetro di riferimento dal quale non è consentito discostarsi.

La vicenda riguarda un impiegato che aveva prestato servizio presso un consorzio comunale per poi essere collocato in quiescenza anticipata per effetto della "totalizzazione" delle contribuzioni da lui possedute in Italia presso l'Inps - Gestione ex Inpdap e di quelle accreditate in suo favore presso l'ente previdenziale estero in occasione di un brevissimo periodo di attività lavorativa (circa 15 giorni) svolta in Europa, in coincidenza con la fruizione dell'aspettativa non retribuita, che era stata da lui chiesta all'amministrazione di appartenenza senza, tuttavia, specificarne la reale motivazione.
Ne è derivato che il beneficio tratto non ha riguardato soltanto il breve periodo lavorativo, poiché in tale contesto, in vista della futura operazione di totalizzazione, il dipendente avvalendosi della normativa vigente nel Paese estero, aveva chiesto e ottenuto, omettendo peraltro qualsiasi comunicazione in ordine alla sua condizione di dipendente pubblico italiano, l'accreditamento presso il competente ente previdenziale, anche di sette anni e sette mesi di contribuzione figurativa, riguardante pregressi periodi di studio scolastico e universitario.

Situazione alquanto singolare, sulla quale la Corte dei conti è intervenuta per fare chiarezza. Viene nello specifico posto in risalto che la condizione temporanea di aspettativa senza assegni non comporta la sospensione del rapporto di pubblico impiego, ma soltanto del concreto scambio, in funzione sinallagmatica, tra prestazione lavorativa, da parte del dipendente, e corresponsione della retribuzione, da parte dell'amministrazione datrice di lavoro. Dato, quindi, che lo status di dipendente pubblico non viene meno durante la fruizione del periodo di aspettativa, il soggetto interessato non è esentato dall'osservanza della normativa che lo disciplina e, in particolare, dell'obbligo, sancito in linea generale dall'articolo 53 del Dlgs 165/2001, di richiedere (se ammissibile) apposita autorizzazione all'amministrazione di appartenenza, nel caso in cui intenda svolgere attività presso terzi anche se all'estero.

Ai fini dell'applicabilità della legislazione italiana, infatti, ciò che rileva è che il pubblico dipendente conservi tale status, a prescindere dal materiale espletamento, in un determinato momento, della prestazione lavorativa presso la Pa di appartenenza. Ne consegue, pertanto, che non possono valutarsi le contribuzioni risultate illegittimamente accreditate in suo favore nel Paese straniero in occasione dell'attività ivi svolta durante la fruizione del periodo di aspettativa, nonché il riconoscimento del diritto dell'Inps a provvedere al recupero dei ratei pensionistici, nel frattempo, comunque versati per tale specifico titolo.

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