Amministratori

Accesso agli atti, stressare gli impiegati è reato solo se c'è paralisi degli uffici

Per il reato di interruzione di pubblico servizio da troppe richieste va dimostrato il nesso di causalità

di Pietro Alessio Palumbo

Il diritto d'accesso ai documenti amministrativi è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse. Attese le sue finalità di pubblico valore costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e assicurare l'imparzialità e la trasparenza della Pa. Quest'ultima deve accertare la sussistenza di un motivato interesse alla richiesta; e in caso di riscontro positivo ha il dovere di adottare le misure organizzative più idonee a garantire la piena soddisfazione del diritto in argomento. Ma abusare del «diritto a sapere» può costituire reato qualora la costante pressione del cittadino alteri la regolarità degli uffici, stressati da richieste ripetitive e cavillose. Secondo la Corte di cassazione (sentenza n. 25296/2021) solo se sia accertato che le sollecitazioni incalzanti abbiano comportato il serio "turbamento" nella gestione dell'ente può configurarsi reato di interruzione di pubblico servizio; altrimenti vale la regola per cui l'esercizio di un diritto, sebbene assillante, esclude la punibilità del «cittadino curioso».

L'interesse all'accesso
Presupposto necessario per configurare il reato di interruzione di servizio pubblico è che le richieste di accesso ai documenti dell'ente non siano sorrette da alcun interesse concreto; o pur sorrette da un interesse siano esercitate sempre per gli stessi atti senza semmai adire l'autorità competente a decidere sui dinieghi opposti. Dà vita al reato in parola ogni condotta che determini un effettivo congestionamento anche solo temporaneo ma notevole delle procedure in cura all'ufficio coinvolto. Il reato non è invece configurabile quando il servizio nel suo complesso continui a funzionare adempiendo agli scopi ai quali è stato preordinato.

La strumentalizzazione del diritto a sapere
L'esercizio del diritto d'accesso anche quando esercitato con plurime richieste non integra l'elemento oggettivo del reato di interruzione di pubblico servizio se non sia dimostrato il nesso di causalità fra le molteplici richieste e lo scompiglio o il grave intoppo alle attività amministrative. Manca pure l'elemento soggettivo se non sia accertata la coscienza e volontà del privato di "strumentalizzare" il diritto d'accesso per ingarbugliare il regolare funzionamento delle procedure burocratiche; compiendo azioni che solitamente sono lecite tuttavia accettando che possano "deviare" in un illecito penale. E si badi - evidenzia la Corte Suprema – in tali casi non va confuso il normale smarrimento psicologico degli impiegati derivante dalle difficoltà, magari incolpevoli, di fronteggiare le insistenti richieste di un utente, con l'oggettivo scombussolamento dell'ufficio se non addirittura col suo palese blocco.

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