Amministratori

Autonomia, dalla Consulta nuova stretta ai trasferimenti

Nella sentenza depositata i giudici precisano che anche per trasferire funzioni «non Lep» che incidono su diritti civili e sociali vanno comunque fissati i livelli essenziali

di Emilia Patta

Come è possibile celebrare un referendum abrogativo su una legge se la legge in oggetto non esiste più? Il deposito della sentenza con cui la Corte costituzionale il 20 gennaio scorso ha giudicato inammissibile il quesito referendario sull’autonomia differenziata targata Lega nonostante il via libera della Cassazione conferma quanto già emerso allora: con la sentenza 192 del 14 novembre 2024 della stessa Corte costituzionale la legge Calderoli è stata talmente smontata che non ne resta quasi nulla. Con la conseguenza che il referendum abrogativo avrebbe avuto per oggetto non più la legge di attuazione dell’autonomia differenziata prevista dall’articolo 116 della Costituzione ma lo stesso articolo 116: una sorta di anomalo plebiscito “sì o no al regionalismo differenziato”, ossia su una norma costituzionale, il che non è naturalmente possibile con lo strumento del referendum.

Sono gli stessi giudici costituzionali a ricordare i motivi per cui la legge Calderoli non è più applicabile dopo la sentenza 192/2024. «Questa sentenza, innanzitutto, ha stabilito che l’attribuzione di ulteriore autonomia alle regioni debba riguardare “specifiche funzioni” e non “materie o ambiti di materie” e che la richiesta di funzioni debba essere adeguatamente motivata dalle regioni alla stregua del principio di sussidiarietà», è scritto nella decisione. E ancora: «La sentenza ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale di gran parte dell’articolo 3 della 86/2024, che disciplina l’individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep)» con la conseguenza che «non c’è modo, attualmente, di individuare i Lep di cui alla suddetta legge: i “nuovi” criteri non ci sono e quelli vigenti non hanno più efficacia». Detto in altro modo, la legge Calderoli è talmente bucata che allo stato non è possibile individuare i “nuovi” Lep e che il “vecchio” criterio di determinazione dei Lep non è più applicabile. Tutto sbagliato, tutto da rifare, nonostante la narrazione del governo che la legge è rimasta in piedi e che le correzioni della Consulta sono autoapplicative: «Basta riscrivere la legge delega per la determinazione dei Lep», ha ribadito nelle scorse ore il ministro leghista degli Affari Regionali Roberto Calderoli.

Non solo. La vera doccia fredda per Calderoli e per le regioni del Nord, in primis il Veneto di Luca Zaia, arriva quando i giudici costituzionali affrontano il tema delle materie non Lep sulle quali sono già state avviate le procedure di trasferimento. «Residuano, è vero, le materie “no-Lep”. Ma in realtà anche queste sono incise dall’interpretazione fornita dalla sentenza 192/2024 - scrivono i giudici -. Nel momento in cui il legislatore qualifica una materia come “no-Lep”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Se, invece, lo Stato intende accogliere una richiesta regionale relativa a una funzione rientrante in una materia “no-Lep” e incidente su un diritto civile o sociale, occorrerà la previa determinazione del relativo Lep (e costo standard)». Dulcis in fundo, ci sono almeno due materie tra le nove non Lep, ossia il commercio con l’estero e le professioni, che non possono essere trasferite tout court. Calderoli continua a dire che il governo va avanti, ma come e in che direzione è sempre meno chiaro.

Quanto ai quattro quesiti per l’abrogazione di quel che resta del renziano Jobs act, ammessi al pari di quello sulla cittadinanza, è da segnalare che se da una parte la Corte costituzionale giudica il pacchetto «chiaro ed omogeneo», dall’altra ammette che sulla disciplina dei licenziamenti «si avrebbe un arretramento di tutela» (tornerebbe infatti in vigore non il vecchio articolo 18 ma la disciplina successiva del governo Monti, più restrittiva del Jobs act in materia di indennizzi). «Notevole motivo per non votare sul Jobs act rifiutando la scheda o votando no», è il commento del costituzionalista ed ex parlamentare del Pd Stefano Ceccanti, critico come altri riformisti sull’opportunità di schierare il partito contro una riforma fatta dallo stesso partito.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©