Fisco e contabilità

Coperture strutturali certe per riforma fiscale e autonomia differenziata

I punti deboli sono quelli di una produttività stagnante che schiaccia i salari

di Gianni Trovati

Le ultime Considerazioni finali svolte da Ignazio Visco alla guida di Bankitalia viaggiano sul crinale fra una congiuntura molto migliore del previsto e un orizzonte di medio termine che resta parecchio complicato: facendo attenzione a evitare che il risalto della prima oscuri il secondo.

«A fronte degli shock di intensità inusitata degli ultimi anni, l’economia italiana ha mostrato una notevole capacità di resistenza e reazione», spiega Visco negli stessi minuti in cui l’Istat comunica l’ennesima revisione al rialzo sul Pil del primo trimestre (+0,6% invece del +0,5% delle stime preliminari), che fa quasi coincidere gli obiettivi annuali del Def con la crescita acquisita già a fine marzo (+0,9%) e spinge la proiezione annuale a +1,9%. La misura della distanza fra i risultati dell’economia reale e le attese dei previsori è offerta, sempre mentre Visco parla, dalle nuove cifre di Moody’s, che per l’Italia del 2023 prevede un +0,8%: dato ancora modesto ma lontanissimo dalla recessione nera (-1,4%) ipotizzata dall’agenzia nell'autunno scorso, poi corretta con una previsione di crescita zero rivista successivamente al rialzo a +0,3% prima della nuova stima di ieri. Al momento Visco osserva che «per il 2023 le previsioni oggi disponibili convergono su un aumento del prodotto intorno all’uno per cento», in un contesto nel quale però «nel primo trimestre di quest’anno la crescita dell'economia ha di nuovo superato le attese».

Le ripetute sorprese positive non modificano però la priorità per i conti italiani, che resta quella di «dare continuità al processo di consolidamento avviato nell’ultimo biennio» in un orizzonte che dovrà essere caratterizzato dal «ritorno a significativi avanzi primari». In un quadro del genere, sarà indispensabile «l’identificazione di coperture strutturali adeguate e certe» per «ogni eventuale aumento di spesa o riduzione di entrata, anche nell'ambito di riforme già annunciate quali quella del fisco o dell'autonomia differenziata».

La ragione è scritta nell’ultimo Def approvato dal Governo, e ripreso dalla Relazione annuale dove a pagina 149 si legge che «il rapporto tra il debito e il Pil – in assenza di una correzione dei conti – tornerebbe ad aumentare già negli anni immediatamente successivi» al 2026. Un bel problema per un Paese che, come ricorda Visco, presenta un debito/Pil «pari a oltre una volta e mezzo la media del resto dell'area euro, proprio come all'avvio della moneta unica».

La riduzione del debito, ricorda Visco, non è un impegno da assumere perché «ce lo chiede l'Europa», anche se è centrale per il rispetto di «regole comunitarie coerenti con la disciplina di bilancio riconosciuta come necessaria dalla nostra Costituzione».

La questione è prima di tutto sostanziale, perché un debito come quello italiano «impone che una quota elevata delle entrate pubbliche sia destinata al pagamento di interessi invece che a impieghi produttivi; pone seri problemi di equità tra le generazioni; rende più difficile l’adozione di misure anticicliche; genera incertezza per gli operatori economici». Senza contare che così intense necessità di rifinanziamento espongono il Paese ai rischi di tempeste sui mercati anche quando «non appaiano giustificate dalle condizioni economiche e finanziarie di fondo».

Perché l’economia in crescita mostra che i fondamentali sono buoni. Le esportazioni di beni sono aumentate dell’11% rispetto al pre-Covid, gli investimenti sono cresciuti del 20% negli ultimi due anni, il debito delle imprese è arrivato alla vigilia della pandemia al 68% del Pil (contro una media dell’Eurozona a oltre il 100%) e quello delle famiglie si è fermato al 41% (15 punti sotto l’area euro). I punti deboli sono quelli noti di una produttività stagnante che schiaccia i salari, e di una Pa che arranca in termini di personale e capacità di innovazione.

Ma la mole del debito, oltre a togliere alle riforme il classico ossigeno del disavanzo, complica il cammino a medio termine di un Paese che per la gelata demografica perderà entro il 2040 sei milioni di persone in età da lavoro (15-64 anni nella definizione convenzionale). Calo drastico dei lavoratori e produttività ferma significano meno Pil, e quindi a parità di condizioni un’incidenza maggiore del debito. Che può essere almeno in parte tamponato dagli immigrati, a patto che siano più dei 135mila all’anno ipotizzati dall’Istat

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