Amministratori

Ddl autonomia, standard dei servizi prima di dare competenze alle Regioni

La bozza chiede la fissazione preventiva dei livelli essenziali delle prestazioni

di Gianni Trovati

Continuerà a non essere breve. E a non essere semplice. La macchina dell’autonomia differenziata, cioè dell’attribuzione di competenze aggiuntive alle Regioni che le chiedono, prova a ripartire dalla legge quadro, carta obbligata per costruire una cornice generale in cui far muovere le intese con i territori.

Il progetto è ambizioso: perché per assegnare davvero le funzioni aggiuntive nei settori più importanti, dal trasporto locale all’istruzione, chiede che siano prima definiti i «livelli essenziali delle prestazioni», cioè gli standard minimi di servizio che vanno assicurati ovunque e finanziati integralmente con l’aiuto dello Stato.

I livelli essenziali sono previsti dal 2001. Ma non sono mai stati completati.

Riassunto delle puntate precedenti per i non addetti ai lavori. L’autonomia differenziata è prevista dalla riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001. Da allora l’articolo 116, comma 3 prevede la possibilità di riconoscere alle Regioni a Statuto ordinario «forme particolari di autonomia» nelle materie di competenza concorrente con lo Stato, un ricco elenco che va dalla sicurezza sul lavoro al coordinamento della finanza pubblica, dall’ordinamento delle professioni fino ai trasporti e all’energia, e su alcune materie di competenza esclusiva statale come le norme generali sull’istruzione e la tutela di ambiente e beni culturali e i giudici di pace.

Da allora, ciclicamente le Regioni, soprattutto del Nord, hanno chiesto queste competenze extra. Ma non se n’è mai fatto nulla.

L’ultimo ciclo è stato avviato il 22 ottobre del 2017, data dei referendum coronati da un successo plebiscitario con cui Lombardia e Veneto chiesero tutto il pacchetto delle attività trasferibili, affiancati dall’Emilia Romagna che spinse in una direzione simile senza passare dalle urne.

Da allora il dossier ha impegnato quattro governi: Gentiloni, con il sottosegretario Gianclaudio Bressa (Pd), ha avviato la macchina, il Conte 1 (ministra Erika Stefani, della delega) ha portato avanti una complessa trattativa naufragata con l’esecutivo, il Conte 2 (ministro Francesco Boccia, del Pd) ha lavorato a una legge quadro sull’autonomia che non è mai arrivata in Parlamento. E ora Draghi, con la ministra Mariastella Gelmini, ritenta appunto la carta della legge quadro.

La bozza in cinque articoli, che la ministra Gelmini punta a portare in consiglio dei ministri entro l’estate come annunciato al Festival dell’Economia di Trento del Sole 24 Ore, definisce il percorso per l’intesa, che viene proposta dalle Regioni, esaminata in consiglio dei ministri, sottoposta a parere delle commissioni parlamentari e poi approvata definitivamente dal governo. Ma soprattutto fissa i binari su cui si dovranno muovere i rapporti finanziari fra Stato e Regioni, perché insieme alle competenze si dovranno trasferire anche le risorse per gestirle: sotto forma di tributi propri, riserve di aliquota o compartecipazioni ai tributi erariali. Ma il punto chiave è che per mettere ordine a questi calcoli la bozza impone «la previa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni» (articolo 3, comma 1) in particolare per sanità, assistenza, istruzione, investimenti nel trasporto pubblico locale. Vasto programma, perché la definizione dei Lep è attesa da 20 anni. L’Ufficio parlamentare di bilancio dovrà poi vigilare annualmente sulle dinamiche di costo delle funzioni trasferite.

Ora il Pnrr imporrebbe di attuare tutto, compreso l’altra eterna incompiuta del federalismo fiscale (entro il 2026). In un percorso lungo, chiamato ad attraversare incognite politiche che appaiono anche più forti di quelle tecniche.

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