Il CommentoPersonale

Incarichi, assegni ad personam e privilegi che non esistono

di Giuseppe Canossi

Mercato del lavoro pubblico? Tanto se ne parla, soprattutto nella corrente fase di rilancio della Pa cui il ministro Brunetta dedica ogni sua energia. Eppure, impazza la disputa sui significati da attribuire alle norme sugli incarichi dirigenziali, di alta specializzazione o comunque apicali a contratto (articolo 110 del Tuel e articolo 19, comma 6, del Dlgs 165/2001), che di un tal rilancio non possono che costituire parte integrante, in particolare sulla facoltà di aggiungere al loro trattamento economico un'indennità ad personam «commisurata alla specifica qualificazione professionale e culturale, anche in considerazione della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali» (articolo 110 del Tuel, comma 3). Ciò, secondo la sezione di controllo per la Basilicata della Corte dei Conti (69/2017) e una parte della dottrina, sarebbe possibile solo per chi è estraneo ai ruoli della Pa (un privato che si propone dall'esterno), mentre nessuna indennità sarebbe erogabile a chi, già dipendente della Pa, si offrisse per simili opportunità. Questi, in sintesi, i motivi del parere: l'indennità ad personam non ha natura tabellare, né accessoria (posizione e risultato); è trattamento fondamentale ma distinto dalle voci tipicamente contrattuali da riconoscere comunque all'incaricato (secondo la norma, il trattamento equivalente); non rientra nei limiti del fondo decentrato (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017); è «volta a remunerare requisiti squisitamente soggettivi, in termini di competenze e capacità professionali, peculiari ed aggiuntivi rispetto a quelli base previsti dal Legislatore ai fini del conferimento dell'incarico», con la conseguenza che «potranno assumere rilevanza solo quelle peculiari competenze professionali che il soggetto incaricato ha dimostrato di possedere in via ulteriore rispetto a quelle base richieste dal Legislatore ai fini dell'affidamento dell'incarico». Ne conseguirebbe altresì la necessità di interpretare i concetti di "temporaneità del rapporto" e "condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali" quali condizioni riferibili solo a chi, privo di un posto di ruolo pubblico, patirebbe l'alea di dover "riaggredire" il mercato al termine dell'incarico.

Di contrario e recente avviso è la sezione Emilia-Romagna della stessa Corte (271/2021, su NT+ Enti locali & edilizia del 12 gennaio), che ritiene attribuibile tale indennità anche ai dipendenti di ruolo della Pa destinatari di detti incarichi. Assisterebbe tale inversa posizione ermeneutica, in primis, il dato letterale delle norme, che nessuna distinzione pongono tra interni ed esterni, anzi prevedendo che «Per il periodo di durata dell'incarico, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in aspettativa senza assegni …» (articolo 19, comma 6), alla quale considerazione deve però aggiungersi come lo stesso comma preveda che le esperienze professionali possono essere state svolte «anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi …». Effettivamente, le norme non escludono mai, dall'opportunità di integrazione indennitaria, gli interni, legandola – come condivisibilmente rileva la sezione emiliano-romagnola – alla specificità dei soli requisiti soggettivi (competenze e qualificazione professionali), non direttamente alle (oggettive) condizioni di mercato, le quali valgono piuttosto ad accrescere la preziosità del soggetto in relazione alla loro eventuale oggettiva scarsità, ma a prescindere da che sia o meno nei ruoli della Pa. La stessa sezione lucana, del resto, afferma che trattasi di «remunerare requisiti squisitamente soggettivi». Comprimere l'incentivazione agli interni, con un tale quadro normativo, varrebbe piuttosto a violare i principi costituzionali di pari opportunità nella selezione pubblica e di giusta retribuzione, in relazione al valore del curriculum.

Ma il problema, in realtà, mostra la sua "falsità" se si considera che la prevista collocazione in aspettativa interrompe radicalmente la progressione in carriera del dipendente pubblico, il quale, nell'assumersi il rischio di un differente mercato, cessa di partecipare alla competizione professionale interna, oggi ricchissima di istituti anche incrementati dalla più recente "riforma Brunetta" (Dl 80/2021): progressione orizzontale economica nella categoria; progressione verticale nella categoria superiore (50% di riserva max dei posti per gli interni); incarichi di posizione organizzativa; progressione nella nuova area delle professionalità di elevata qualificazione. Non è revocabile in dubbio, pertanto, come la scelta di accettare incarichi a contratto blocchi in radice tali opportunità, facendo "perdere il treno" al dipendente pubblico che rientra nel ruolo alla fine dell'incarico a contratto. Il rischio di mercato degli interni appare quindi del tutto evidente, con la conseguenza che impedire la loro incentivazione ad personam varrebbe a svilire la spendita delle professionalità possedute, contrariamente a quanto voluto espressamente dal legislatore anche per il personale di ruolo. Del resto, non sembra assentibile quanto pare evincibile dal parere lucano, ove si dice che sarebbero rilevanti solo le «peculiari competenze professionali che il soggetto incaricato ha dimostrato di possedere in via ulteriore» rispetto a quelle base richieste dal Legislatore ai fini dell'affidamento dell'incarico", come se – ordinariamente – al legislatore interessasse investire, per i ruoli pubblici, solo su professionalità meramente "basiche". L'esatto contrario, a ben vedere, di tutto ciò che si sta facendo per la rinascita della Pa.