Personale

La falsa attestazione della presenza in servizio non produce danno all'immagine

La responsabilità dolosa del può essere valutata per il profilo del risarcimento del danno cagionato all'ente

di Claudio Carbone

Incorre in responsabilità dolosa il dipendente pubblico che con comportamenti ripetitivi nel tempo posticipa la sua effettiva entrata in servizio e nei casi più gravi dopo aver timbrato l'ingresso, si allontana dal posto di lavoro, senza far risultare l'uscita mediante timbratura. Tale responsabilità, tuttavia, accanto a quella disciplinare e penale può essere valutata per il profilo del risarcimento del danno cagionato all'ente locale e non anche per il danno all'immagine. È quanto si ricava dalla sentenza n. 45/2022 della Corte dei conti per la Liguria.

La Procura, nell'esaminare i fatti, richiamando l'articolo 55-quinquies, comma 2, del Dlgs 165/2001 in base al quale, nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio mediante l'alterazione dei sistemi di rilevazione delle presenze o con altro mezzo fraudolento, il dipendente, ferma la sua responsabilità penale e disciplinare, deve risarcire alla propria amministrazione il danno patrimoniale pari alla retribuzione percepita nei periodi di falsa attestazione della presenza in servizio, nonché il danno all'immagine alla stessa cagionato, aveva contestato quest'ultimo danno perché derivante dall'avvio del procedimento disciplinare seppur in assenza di divulgazione dei fatti a mezzo stampa.

Di segno opposto è stato il Collegio sulla base delle seguenti considerazioni. Il danno d'immagine di cui all'articolo 55-quater, comma 3-quater del Dlgs 165/2001, nella parte in cui prevede (va) una nuova fattispecie di natura sostanziale, comprendente anche le modalità di stima e di quantificazione del danno all'immagine, intrinsecamente collegata con l'avvio, la prosecuzione e la conclusione dell'azione di responsabilità da parte del procuratore contabile, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (Corte costituzionale n. 61/2020). Per effetto di tale pronuncia, il danno reputazionale è stato attratto nell'alveo della disciplina generale del pregiudizio all'immagine della pubblica amministrazione, pur mantenendo il carattere speciale e, pertanto, sganciato dal previo giudicato penale di condanna. Ne consegue che sulla quantificazione del danno, trova applicazione l'articolo 1, comma 1-sexies, della legge 20/1994 e, dunque, la presunzione legale che, salvo prova contraria, delimita il danno al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altre utilità illecitamente percepita dal dipendente.

Con riferimento, invece, alla configurabilità del danno è rilevato che la diffusione mediatica dei fatti non è un elemento indefettibile della fattispecie dannosa atteso che il clamore e la risonanza non integrano la lesione ma ne indicano la dimensione. Come conseguenza, è necessario dare conto degli «indicatori di lesività» di natura oggettiva, soggettiva e sociale elaborati dalla giurisprudenza in materia. Nel caso di specie, conclude la sentenza, la Procura incentra la ricorrenza del danno all'immagine essenzialmente sull'avvenuto licenziamento, sulla recidiva specifica e sulle modalità della condotta; elementi tutti già considerati in sede disciplinare con l'irrogazione della misura estintiva il rapporto. Mancano, in sostanza, sia l'allegazione e la prova degli elementi oggettivi, soggettivi e sociali richiamati, alla cui stregua addebitare, sia pure in chiave presuntiva, il danno reputazionale conseguente alle condotte infedeli.

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