La Pa e l’opportunità di dotarsi finalmente di prassi sostenibili
Perché non cogliere seriamente nel procurement di investimenti e acquisti pubblici il principio del do not significantly harm della Commissione Europea anche oltre gli investimenti finanziati da risorse comunitarie – Pnrr e i Fondi Strutturali? O ancor meglio, perché non provare a prendere seriamente i transformational goal del G20? La corsa al rispetto dei tempi di spesa delle risorse comunitarie, il predominio di una cultura amministrativa che tende a far prevalere la bontà formale su quella sostanziale, il carico burocratico, fatto di norme, regolamenti, pareri molto spesso non vincolanti che “in ogni caso meglio chiedere” e un personale poco allenato e preparato alla gestione dell’innovazione, compresi i rischi che sottendono a questa, ostacolano la capacità delle amministrazioni pubbliche (Pa) di essere buyer sofisticato e quindi di dare un serio contributo in termini di sostenibilità ambientale e sociale. In questo ambito, assistiamo a una forte dicotomia tra la Pa come policy maker e regolatore, il cui ruolo è sempre più invocato anche dagli investitori per ridurre il rischio di greenwashing, e la Pa come azienda di produzione ed erogazione di servizi pubblici. L’attività di procurement di beni, servizi e investimenti è sostanzialmente di tipo operativo e ben lontana dall’essere gestita in modo strategico.
Oggi appare evidente l’importanza e l’urgenza di adottare un approccio differente, che consenta di interiorizzare nelle modalità di progettazione di investimenti, servizi e acquisti, di scelta e strutturazione delle procedure, di selezione degli operatori economici e di monitoraggio dei contratti, elementi capaci di generare un effettivo valore per la società. Un approccio in cui la sostenibilità e gli impatti socio-economico-ambientali non siano solo un outcome da misurare e valutare ma da orientare, influenzare e potenziare con chiare scelte a monte. Questo può essere fatto adottando le logiche del value-based procurement process, un approccio che pone enfasi sulla progettazione del procurement. Un miglior impatto ambientale e sociale non deriva solo dai contenuti del progetto posto a base di gara, ma anche dai requisiti di partecipazione, dai criteri di selezione, dal modello contrattuale, dai sistemi di pagamento e di penale. Un approccio di questo tipo consentirebbe, per esempio, di stimolare maggiori investimenti per la sicurezza sui cantieri, imponendo l’uso di soluzioni e tecnologie oggi già disponibili; di dare priorità a soluzioni di investimento più rispondenti ai princìpi della circularity o ad acquisti di dispositivi sanitari capaci di generare minor recidiva o maggior appropriatezza clinica; di sfruttare al meglio la capacità tecnologica di operatori economici, anche piccole imprese particolarmente dinamiche e innovative anche nei modelli di business, e di investitori che operano secondo logiche di finance for impact e di impact investing, ben propensi a coinvestire in diversi ambiti. Utilizzare acquisti e investimenti pubblici come ulteriore veicolo di policy per conseguire gli obiettivi di transizione energetica, sostenibilità, inclusione ed equità sociale non è però solo una questione di indicatori e procedure, perché il rischio è quello che siano percepiti dalle amministrazioni come un ulteriore carico burocratico e che nuovamente prevalga la forma sulla sostanza, ciò che più sta preoccupando anche in tema di investimenti Esg. Sarebbe auspicabile che ogni Pa, partendo dalle più grandi, si potesse dotare di una propria strategia di sostenibilità, che vada a orientare le scelte di management e di procurement a valle, ponendo obiettivi al management pubblico e sostenendo, anche con interventi di formazione e di supporto tecnico, progettualità sperimentali da replicare nel metodo. Adottare un value-based procurement process che chiaramente punti a incrementare il valore per la società non ha alcuna barriera normativa, esiste un corpus consistente di direttive, raccomandazioni, norme che possono giustificare una diversa azione amministrativa. E non è neppure una questione di Codice dei contratti, seppure il nuovo codice potrà nella sua impostazione complessiva dare ulteriore spinta. Serve, però, anche un mercato più aperto a questi cambiamenti. Alzare l’asticella nelle gare pubbliche inevitabilmente porta a escludere chi è meno innovativo, ma il mercato non potrà lamentarsi di una Pa poco innovativa se a ogni tentativo di innovazione si risponde con ricorsi, che inevitabilmente rallentano e deprimono il processo di cambiamento. Innovazioni di tale portata richiedono un grande allineamento tra pubblico e privato con una prospettiva di lungo termine.