Appalti

Nuovo codice appalti, la concessione di servizi aumenta le possibilità di business

Da 1° luglio 2023 le concessioni di servizi remunerate dall'amministrazione non dovranno più, necessariamente, prevedere un investimento consistente nella realizzazione di lavori

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di Velia Maria Leone*

Il D.lgs 36/2023 - il Nuovo Codice - dedica il Libro IV° al contratto di concessione e al Ppp, sostanzialmente, allineando la normativa italiana alla direttiva 23/2014 - la Direttiva Concessioni - e superando, risolvendole, alcune delle incongruenze del D.lgs. 50/2016 e ss.mm.ii. - il Vecchio Codice -, tra cui l'infelice ripartizione tra il contratto di concessione - artt. 164 e ss. - ed il c.d. contratto di Ppp - artt. 179 e ss. -, che, oltre ad aver creato un'enorme confusione operativa, non trova alcuna ratio giuridica nelle direttive UE, dal momento che i contratti ivi normati sono solo il contratto di appalto e quello di concessione, che rappresenta l'unico legittimo paradigma giuridico per l'affidamento di tipologie di Ppp, previste a livello di normativa italiana in tema di contratti pubblici.

In tale contesto, chiarito questo punto fondamentale, una delle novità più significative introdotte dal Nuovo Codice è l'aver pienamente equiparato il contratto di concessione di servizi a quello di lavori, come previsto dalla Direttiva Concessioni. Ciò vuol dire che il D.lgs. 36/2023 supera le ambiguità derivanti dalla definizione di contratto di Ppp, di cui all'art. 3, comma 1, lett. eee) del Vecchio Codice, secondo cui lo stesso prevedeva necessariamente l'affidamento della «realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un'opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connessa all'utilizzo dell'opera stessa». Il Nuovo Codice, infatti, all'art. 174, non menziona più la necessità di un'opera, ma riconduce la nozione di Ppp ad un complesso di caratteristiche, la principale delle quali attinente al trasferimento del rischio operativo, declinato in conformità con la Direttiva Concessioni.

Detto ciò, tuttavia, affinché un contratto di servizi, soprattutto se remunerato esclusivamente o principalmente dall'amministrazione - attraverso il riconoscimento di un canone di disponibilità -, sia legittimamente considerato un contratto di concessione di servizi, è necessario che il concessionario incorra in un investimento iniziale - ed eventualmente, anche in fase di esecuzione del contratto stesso, ove funzionale alla gestione - il c.d. capex, o, comunque, anche nel caso di tariffe a carico degli utenti, in costi fissi indipendenti dall'uso effettivo del servizio, potenzialmente non recuperabili nel corso dell'esecuzione del contratto, in piena coerenza con l'assunzione del rischio operativo, elemento di fondamentale distinguo tra il contratto di concessione e quello di appalto.

È, dunque, proprio il rischio di non recuperare il capex inizialmente investito che, caratterizzando, in genere, il contratto di concessione, deve essere presente anche nella concessione di servizi, indipendentemente dal suo collegamento, o meno, con i lavori pubblici. Tale elemento prescinde dall'identificazione dell'oggetto del contratto: infatti, la stessa attività può essere affidata come contratto tanto di appalto di servizi, quanto di concessione di servizi e, in molti casi, la distinzione tra le due fattispecie giuridiche non è di immediata individuazione. Tale affermazione è corroborata dalla prassi dei c.d. contratti di service - molto in uso in ambito sanitario, ma non solo -, in cui le obbligazioni declinate, prima, nei capitolati a base di gara e, poi, nel contratto di affidamento, tendono ad essere molto - in alcuni casi anche troppo! - simili ai contratti di concessione di servizi, rendendone l'interpretazione tassonomica non facile, nonché complicando l'identificazione dell'assunzione del rischio operativo in capo al concessionario, come prescritto dall'art. 175, comma 2 del Nuovo Codice, anche in fase di esecuzione del contratto.

Su questa potenziale "zona grigia" è intervenuta la sentenza - ormai risalente nel tempo, ma tutt'ora valida e pregnante - Oymanns (C-300/07) della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che, partendo dalla definizione di concessione evidenzia "[…] che questa è caratterizzata da una situazione in cui un diritto di gestire un servizio determinato viene trasferito da un'autorità aggiudicatrice ad un concessionario e che questi dispone, nell'ambito del contratto concluso, di una certa libertà economica per determinare le condizioni di gestione di tale diritto restando così, parallelamente, in larga misura esposto ai rischi connessi a detta gestione". È, dunque, l'assunzione del rischio operativo che consente di distinguere il contratto di concessione da quello di appalto, non esistendo nella Direttiva Concessioni alcuna ulteriore distinzione tra le concessioni di lavori e quelle di servizi, come oggi chiarito dall'art. 177 del Nuovo Codice e dall'art. 2, lett. c) dell'allegato I.1 allo stesso.
A tal proposito, la stessa sentenza Oymanns precisa che il rischio di gestione è escluso se l'OE:

a) è «liberato dal rischio legato alla riscossione della propria remunerazione ed all'insolvibilità della propria controparte contrattuale individuale», e, soprattutto se
b) «pur dovendo essere dotato dei mezzi sufficienti per poter prestare i propri servizi, esso non deve previamente esporsi a spese rilevanti prima di concludere un contratto", nonché il numero degli utenti "(…) i quali potrebbero far ricorso ai servizi di tale operatore economico, è noto in anticipo, di modo che questi può operare una previsione ragionevole in ordine alla richiesta dei suoi servizi».

Da tale disamina emerge chiaramente che, dal 1° luglio 2023, le concessioni di servizi remunerate dall'amministrazione non dovranno più, necessariamente, prevedere un investimento consistente nella realizzazione di lavori. Questo non vuol dire che non sia più possibile compendiare nel perimetro della concessione di servizi anche lavori, ma che, di converso, la realizzazione e gestione di lavori pubblici non rappresenta più una condizione necessaria e prodromica affinché la concessione di servizi remunerata dall'amministrazione sia legittima. Di conseguenza, solo ove siano, effettivamente, previsti dei lavori, i potenziali operatori economici, aventi i requisiti soggettivi atti a qualificarli come concessionari di servizi - qualifiche, peraltro, non chiaramente individuate nel Nuovo Codice -, dovranno coinvolgere - a diverso titolo, ossia nel costituendo RTI o in avvalimento, prima della gara, oppure, in fase di esecuzione del contratto, come subappaltori - operatori economici in grado di eseguire i lavori, mentre, in tutti gli altri casi, potranno concentrarsi solo sulla quantificazione e qualificazione dei propri servizi.

Peraltro, anche in vigenza del Vecchio Codice sono state affidate - in ossequio alla Direttiva Concessioni - concessioni di servizi, remunerate dall'amministrazione, che non comprendevano lavori, ma che contemplavano un rilevante investimento sia iniziale, che in fase di esecuzione del contratto, segnatamente quella sul Polo della Sicurezza Nazionale e quella sui servizi abilitanti della piattaforma nazionale di telemedicina. Tuttavia, proprio quelle esperienze hanno evidenziato la difficoltà di innestare il contratto di concessione di servizi in un sistema giuridico fortemente influenzato dalla visione lavoristica. Ad esempio, il tema della progettazione (art. 23 Vecchio Codice), che presenta una scansione normativa ragionevolmente chiara per quanto riguarda i lavori - seppur in mancanza del previsto regolamento che doveva essere emanato dal Mit e che, con il Nuovo Codice, è stato, temporaneamente, sostituito dall'allegato I.7 -, pare essere stato in parte sottostimato dal legislatore per quanto riguarda i servizi: infatti, nonostante il succitato art. 23 imponga che la progettazione debba essere svolta tanto per i lavori quanto per i servizi, nulla dice il codice – tanto il Vecchio, quanto il Nuovo – sugli specifici documenti attraverso cui la stessa deve articolarsi, non contribuendo alla certezza del diritto, né alla creazione di una consistente base di buone pratiche, come richiesto dall'art. 175, comma 8 del Nuovo Codice.

Ciò rischia di creare una panoplia di modelli non comparabili tra loro, né scalabili, nonostante lo sforzo di maggiore chiarezza che il Nuovo Codice ha realizzato per l'inquadramento della concessione di servizi. Simili considerazioni possono essere svolte anche in relazione ai requisiti soggettivi speciali del concessionario, che non sono regolati negli articoli del Nuovo Codice in materia di concessione, ma solo nell'art. 33 (Requisiti del concessionario) della Parte IV dell'Allegato II.12, con riferimento al concessionario di lavori. Anche questi risentono del forte marchio lavoristico: infatti, seguono, acriticamente, il solco segnato dall'art. 95 del DPR 207/2010, che si riferiva ai concessionari di lavori ed è stato oggetto di importanti pronunce giurisprudenziali, che ne hanno consentito la legittima estensione anche ai concessionari di servizi.

In conclusione, vista la struttura del mercato italiano, e le potenzialità offerte dalle capacità degli operatori economici nel settore dei servizi, si auspica che nel processo di predisposizione della legislazione secondaria afferente al Nuovo Codice, l'esecutivo prima, ed il legislativo, poi, prendano in considerazione il necessario adeguamento delle varie partizioni - in primis, progettazione e requisiti soggettivi - così da consentire ai potenziali operatori privati, che vogliano ingaggiarsi nel mercato della concessioni di servizi di poter operare in un quadro normativo coerente ed in grado di produrre operazioni non solo pienamente legittime, ma anche di sempre crescente qualità.

(*) Studio legale Leone&Associati

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