Fisco e contabilità

Potere organizzativo del datore di lavoro pubblico tra usi, abusi e incursioni politiche vietate

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di Rossana Salimbeni (*) - Rubrica a cura di Anutel

L'articolo 97 della Costituzione italiana dice che: «I pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati l'imparzialità ed il buon andamento dell'amministrazione»; secondo l'articolo 98 «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione».
L'articolo 1 del Dlgs 165/2001 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche) recita: «Le disposizioni del presente decreto disciplinano l'organizzazione degli Uffici e i rapporti di lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche, nel rispetto dell'art. 97 della Costituzione» e 'articolo 5 del Dlgs 165/2001: «Nell'ambito delle leggi…le misure inerenti alla gestione del rapporto di lavoro…ed in particolare l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro».

Un quadro normativo così definito è consuetudine ormai rara ai tempi della legislazione convulsa e confusa degli ultimi anni. C'è nell'ambito del lavoro alle dipendenze della Pa un decreto, il Dlgs 165/2001 che apre le sue pagine con una dichiarazione forte di dipendenza e di rispetto all'articolo 97 della Costituzione. Si evince, scorrendo le sue disposizioni, una definizione limpidissima delle competenze datoriali e della loro attribuzione esclusiva all'ambito della gestione, mai della politica, che è volutamente tenuta fuori da decisioni che debbono rispondere a presupposti che non potrebbero correttamente essere presidiati dalla politica. Uno su tutti, l'imparzialità.

Non meno importanti le norme del codice civile sulla correttezza e sulla buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375, che costituiscono clausole generali di ogni rapporto negoziale, e si pongono come limite intrinseco ai poteri del datore di lavoro affinché questi siano esercitati in maniera non arbitraria o irrazionale.

E la ragione è semplice. Gli atti organizzativi devono sempre fare i conti con l'articolo 97 della Costituzione e debbono realizzare esclusivamente l'interesse pubblico. Non risponde all'interesse pubblico, né alle finalità dell'articolo 97 della Costituzione utilizzare gli atti organizzativi di matrice datoriale per finalità altre che non sono riconducibili ai suoi principi. Eppure anche a fronte di una chiarezza ormai quasi desueta delle norme che governano l'organizzazione del lavoro, è tutt'altro che raro imbattersi in prassi divergenti, in dirigenti che sollecitano le incursioni della politica su materie di loro esclusiva spettanza, auspicando una condivisione delle responsabilità proprie, piuttosto che in politici avvezzi alle invasioni di campo della dirigenza che, suo malgrado, poi ne applica le scelte.

In tema di scelta del personale apicale, ad esempio, non risponde certo alle finalità dell'articolo 97 della Costituzione, né al dettato degli articoli 1, 2, 5 del Dlgs 165/2001 adottare atti amministrativi per promuovere o defenestrare un dipendente non sulla scorta di un iter logico motivazionale riconducibile a tutte le norme di rango costituzionale e ordinario ricordate, bensì per finalità governate da logiche altre o peggio ancora da malcelate finalità fiduciarie o ritorsive. Questo è chiaramente solo uno degli esempi riconducibili potenzialmente alle figure sintomatiche di eccesso di potere per sviamento della causa tipica connessa al suo esercizio nel caso concreto.

È ormai pacifico a livello giurisprudenziale che l'articolo 97 della Costituzione è norma di diretta applicazione, nella sua parte immediatamente precettiva che impone al funzionario pubblico di non usare, nell'esercizio delle sue funzioni, il potere che la legge gli conferisce al di fuori dello schema normativo che ne legittima l'attribuzione; di non usare quel potere di derivazione costituzionale per compiere,invece, deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi, ovvero ancora, per realizzare intenzionali vessazioni.
Quid iuris, allora, nel caso di distorto utilizzo delle determinazioni organizzative utilizzate per premiare o punire qualcuno in assenza delle garanzie procedurali o peggio ancora con procedure che hanno attuato indirizzi politici che non dovevano esserci in quella materia, in violazione, quindi sia di leggi che di regolamenti?

Le condotte riconducibili al cattivo esercizio del potere organizzativo datoriale, sono certamente censurabili con ricorso al tribunale ordinario in funzione di giudice del lavoro.
Le condotte che violino leggi e regolamenti creando intenzionalmente ingiusti vantaggi ovvero arrecando ingiusti danni patrimoniali sono censurabili, altresì, in sede penale.
Detta ultima sede va considerata soprattutto laddove, ad esempio, in tema di conferimento, rinnovi, di incarichi apicali cui è riconnesso un salario accessorio, la circostanza delle violazione di legge o di regolamento, l'obliterazione dei principi minimi di correttezza del codice civile, si arricchisce di contorni di ulteriore opacità per l'ulteriore rilievo che la premialità, pagata con danaro pubblico, non sia nemmeno accompagnata dall'esercizio effettivo delle funzioni attribuite, che quella premialità è deputata a compensare.

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