Pubblico impiego, mansioni da pagare anche se illegittime
Solo la frode all'ente blocca il riconoscimento economico dei compiti superiori
Lo svolgimento di mansioni superiori in modo illegittimo, cioè al di fuori dei casi previsti dall’articolo 52 del Dlgs 165/2001, non determina in alcun modo il diritto al reinquadramento, mentre integra i presupposti per il riconoscimento della differenza di trattamento economico. A questo fine è però necessario che il tutto non sia avvenuto all’insaputa dell’ente, né in contrasto con i principi dettati dall’ordinamento, fattispecie cui deve ascriversi anche l’intesa con il dirigente finalizzata ad aggirare il dettato legislativo.
Possono essere così riassunti i principi dettati dalla sentenza della sezione lavoro della Corte di cassazione n. 2275/2021, che modifica quanto deciso dalla Corte d’Appello, che aveva negato anche il diritto al riconoscimento della differenza di trattamento economico. La sentenza evidenzia con molta nettezza la necessità di delimitare nel pubblico impiego, sulla base di principi che sono diversi rispetto a quelli che si applicano nel settore privato, l’ambito di applicazione dell’istituto delle mansioni superiori, ricorda l’assoluto divieto del reinquadramento e fissa il diritto del dipendente a ricevere la differenza di trattamento economico, precisandone l’ambito di applicazione.
In primo luogo, la sentenza sintetizza le ragioni che sono alla base del divieto assoluto di reinquadramento. Viene ricordato come l'articolo 97 della Costituzione stabilisca che l’accesso al pubblico impiego deve avvenire per concorso pubblico, fatte salve le eccezioni che devono essere tassativamente indicate da parte del legislatore nazionale. Il che preclude anche il passaggio tra le categorie o aree: anch’esso è assoggettato alla necessità di rispettare questo principio.
Occorre ricordare che la Corte Costituzionale ha ripetutamente fornito una lettura molto restrittiva di questa disposizione, fissando in modo rigoroso gli ambiti entro cui sono ammesse le deroghe.
Un’ulteriore indicazione assai importante, sempre da considerare come una premessa alla definizione del contenzioso, è costituita dalla riaffermazione del principio per il quale la scelta di ricorrere alle mansioni superiori deve essere contenuta in un «atto di macro-organizzazione, di portata generale». Questo suggerisce che il ricorso all’istituto deve essere deciso in via ordinaria nella programmazione del fabbisogno del personale o, comunque, in un atto che ha natura programmatoria e valenza generale.
Le mansioni superiori sono previste solamente in due casi: copertura di un posto vacante in dotazione organica, a condizione che entro 90 giorni sia indetta la procedura concorsuale o comunque per la sua copertura (ad esempio scorrimento della graduatoria) o sostituzione di un dipendente assente per ragioni diverse dalle ferie, con diritto alla conservazione del posto.
Nel merito, la sentenza ribadisce il principio per il quale i dipendenti cui sono state conferite mansioni superiori hanno diritto alla differenza di trattamento economico. In questa direzione sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 908/1988, n. 57/1989, n. 236/1992 e n. 296/1990, che danno applicazione alle previsioni contenute nell'articolo 36 Costituzione. Sono molto importanti le seguenti tre considerazioni, che fissano gli ambiti entro cui si può legittimanente procedere alla remunerazione delle mansioni superiori.
Non possono essere dettati «sbarramenti temporali di alcun genere». In secondo luogo, il diritto non richiede che vi sia un accertamento della legittimità del conferimento delle mansioni superiori. Infine, il diritto alla corresponsione della differenza di trattamento economico è consentito solamente nel caso in cui questa attività non sia stata svolta in modo fraudolento, cioè «all'insaputa o contro la volontà dell’ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente o in ogni ipotesi in cui si riscontri una situazione di illeicità».