Fisco e contabilità

Riscossione fallita in 1.300 Comuni

Un ente locale su sei (e uno ogni tre al Sud) ha i bilanci schiacciati dalle mancate entrate e i conti in disavanzo

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di Gianni Trovati

In queste settimane più di 800 Comuni, dove abitano 10 milioni di italiani, assisteranno al thriller degli emendamenti al decreto Sostegni-bis nella speranza che Governo e Parlamento lancino una scialuppa normativa per salvarli dal dissesto. La stessa ansia è condivisa in modo trasversale dai partiti di maggioranza e opposizione. Perché a ottobre ci sono le elezioni amministrative in più di mille Comuni, e sviluppare una campagna elettorale facendosi largo fra i default municipali non è il massimo.

La causa di tanto penare è l’illegittimità costituzionale che ha travolto il ripiano in 30 anni dei deficit generati dalla gestione dei prestiti concessi nel 2013-2015 dallo Stato per pagare le vecchie fatture ai fornitori. La Consulta (sentenza 80/2021) ha cancellato quella regola perché scaricava i debiti dei padri sulle generazioni dei figli. In campo è rimasto solo il ripiano ordinario (in massimo 3 anni invece di 30), che fa saltare i conti di Napoli, Torino, Lecce, Reggio Calabria, Salerno e, appunto, altri 800 Comuni fra i 1.400 investiti in varia misura dal problema. Fin qui, la cronaca.

Ma basta grattare il velo dell’attualità stretta per capire che il problema vero è un altro. Ed è strutturale. I Comuni spesso non riescono a incassare le entrate che prevedono nei loro bilanci. E quando la forbice fra la teoria dei conti e la realtà della cassa si allarga troppo la situazione va fuori controllo. L’ampia maggioranza dei Comuni che aveva chiesto i prestiti statali si trovava in questa condizione. E oggi, senza un salvataggio statale, rischia di dover issare la bandiera bianca del fallimento dopo aver applicato una legge dello Stato. Ma la stessa scena si ripete anche in tanti altri enti.

Qualche numero spiega tutto. Nel 2019, dunque prima che la crisi pandemica colpisse i bilanci 2020 ora in via di approvazione, 1.456 Comuni, cioè poco meno di un ente ogni cinque, hanno chiuso i conti in disavanzo perché non sono riusciti a pareggiare entrate e spese. Nello stesso anno, 1.268 amministrazioni locali hanno denunciato nei loro conti una riscossione gravemente zoppicante, e sono stati costretti ad accantonare nel fondo a garanzia dei mancati incassi somme superiori all’8% delle entrate totali. Ad aprire le voragini nelle casse locali non sono tanto i tributi, che come l’Imu e l’addizionale Irpef sono riscossi a livello nazionale e girati ai Comuni, ma le multe, le tariffe per i servizi individuali (asili, mense scolastiche eccetera) e canoni che rientrano nella casella delle «entrate extra-tributarie». Lì la caccia ai pagamenti si sviluppa tutta a livello locale. E spesso fallisce.

La geografia dimostra che i due gruppi di enti coincidono quasi perfettamente. I Comuni che chiudono in deficit sono quelli che non riescono a incassare le proprie entrate. È in rosso il 2,2% dei Comuni al Nord, il 22,1% al Centro e il 32,7% al Sud. E ha grossi buchi nella riscossione il 5,5% degli enti al Nord, il 22,1% al Centro e il 32,5% al Sud. Quando si aziona lo zoom sulle singole regioni si incontrano altre conferme. In Calabria il deficit comunale, entità praticamente sconosciuta in Piemonte, Lombardia e Veneto per non parlare delle regioni autonome del Nord, riguarda il 62,1% dei Comuni, e la riscossione a singhiozzo si incontra nel 50,5% degli enti. In Campania i confini delle due condizioni coincidono perfettamente e abbracciano 229 amministrazioni comunali: il 42,3% del totale.

La «banca dati delle amministrazioni pubbliche», il censimento telematico del Mef sui conti degli enti centrali e locali, spiega che la «capacità di riscossione» di Comuni, Province e Regioni oscilla in Italia fra il 73% del Veneto (seconda la Lombardia al 72%) al 46% della Calabria (che chiude la classifica dopo il 48% della Sicilia). Ma quando si parla di enti locali le medie non riescono a indicare la profondità del problema. Meglio guardare a casi specifici.

La prima meta ideale del viaggio è Napoli, da sempre in bilico sul default. Nel 2019 Palazzo San Giacomo è riuscito a incassare il 46% delle entrate extra-tributarie messe a bilancio (129 milioni su 307 previsti), e la percentuale scende al 24,4% se si guarda solo alle multe (36,4 milioni su 139,4). Il resto finisce fra i «residui attivi», gli arretrati che i Comuni provano a raccogliere negli anni successivi. E quanto riesce a recuperare il Comune di Napoli? Nel 2019, spiega l’allegato 2-b al rendiconto, il 3,75%, e l’1,15% nel caso delle multe. Nulla.

Napoli non è sola. Anzi, altrove va anche peggio. A Reggio Calabria il Comune ha messo a bilancio 49,8 milioni di tariffe, multe e canoni, e ne ha incassati 8 (il 16,3%). A Palermo su 133,7 milioni ne sono stati riscossi 32,7 (il 24,4%).

Alla base di queste performance c’è un circolo vizioso. Gli enti che non funzionano non riescono a raccogliere le entrate e quindi non hanno i fondi per assicurare servizi, l’assenza di servizi alimenta la resistenza al pagamento. E non aiuta a ridurre le aree di pesante sofferenza socio-economica dove i versamenti delle tariffe locali sono l’ultima delle urgenze.

Fin qui il dibattito si è concentrato soprattutto sugli stratagemmi per evitare il dissesto dei grandi Comuni (sui piccoli l’interesse è più tiepido), alla ricerca del tappeto sotto il quale nascondere la polvere dei debiti (quello della fiscalità generale, per esempio, previsto dal «Patto per Napoli» siglato da Pd e M5S).

Nel frattempo la riscossione locale è stata lasciata al suo destino. L’accertamento esecutivo, abitudine ultradecennale nel fisco nazionale, ha debuttato nei tributi locali solo il 1° gennaio 2020. Ma due mesi dopo la pandemia ha bloccato tutto, con un congelamento che ferma le attività fino al 30 giugno. In 15 mesi non si è trovato il modo di compensare per le mancate entrate i concessionari privati che gesticono le entrate in oltre 6mila Comuni, e anzi è stata negata anche la possibilità di rinegoziare i contratti per tener conto dell’emergenza. Il risultato è la probabile catena di fallimenti di queste società. E dei Comuni con loro.

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