Servizi locali, il 93% affidato senza gara
Falliti i vincoli agli enti , sul tavolo l'obbligo di motivazione preventiva
Le nuove regole in arrivo sulla concorrenza torneranno a occuparsi di un sempre-verde nella normativa italiana Antitrust: i limiti alla possibilità per gli enti pubblici, Comuni in particolare, di affidare servizi come i trasporti, l’igiene urbana, l’energia o l’idrico senza gara, rivolgendosi direttamente alle proprie aziende.
La battaglia all’in house totalitario è ormai ultradecennale. Ma parecchio avara di risultati.
Il quadro più aggiornato è stato appena delineato dalla Corte dei conti. I magistrati della sezione Autonomie (delibera 15/2021) hanno passato in rassegna 18.251 affidamenti in corso, per un valore che supera di un soffio gli 11 miliardi di euro all’anno: in questo panorama sterminato, 16.963 (il 93% del totale) hanno seguito la via diretta dell’in house, con cui l’ente affida senza gara il servizio a una partecipata su cui dovrebbe avere un controllo analogo a quello che assicura sui propri uffici. Nella parte residuale rappresentata dalle attività affidate con procedure selettive (1.288), una quota marginale (288 casi) ha visto la gara «a doppio oggetto», che rappresenta la premessa per l’affidamento diretto a una società mista pubblico-privata (la gara riguarda la scelta del socio e il servizio).
Numeri come questi, che restano inalterati anche quando si guarda ai soli servizi pubblici economici, colorano di una tinta paradossale il lungo dibattito della giurisprudenza intorno alla domanda se le regole Ue, e le norme italiane, giudicassero o meno l’affidamento diretto una via eccezionale in deroga alla regola ordinaria della gara. E soprattutto misurano il fallimento delle tante norme che in questi anni si sono susseguite sulla Gazzetta Ufficiale nel tentativo di riequilibrare la situazione.
Perché a differenza di quanto faccia pensare il censimento della Corte dei conti, in teoria già oggi gli affidamenti diretti dovrebbero superare una fitta serie di esami per andare in porto. L’ente che decide l’affidamento in house deve certificare «il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione» e garantire «adeguata informazione alla collettività di riferimento» (lo chiede l’articolo 34 del Dl 179/2012, governo Monti). Quando l’affidamento riguarda i servizi pubblici locali a rilevanza economica, gli enti devono dimostrare che la loro scelta è vantaggiosa rispetto alla gara in termini di «universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio» (lo impone l’articolo 3-1bis, comma 1-bis del Dl 138/2011, governo Berlusconi). Senza dimenticare la «valutazione preventiva sulla congruità economica dell’offerta dei soggetti in house» e l’illustrazione delle ragioni «di ottimale impiego delle risorse pubbliche» ribadite dal Codice appalti (articolo 192, comma 2 del Dlgs 50/2016, governo Renzi).
Difficile pensare che tutti gli affidamenti diretti conteggiati dalla Corte rispondano in pieno a questi parametri. Il problema, semmai, è che quelli posti sulla strada dell’in house dalle norme sono ostacoli di carta, che producono adempimenti formali senza incidere sui comportamenti della Pa. Una mossa sul tavolo, chiesta dall’Antitrust, è di rendere la pubblicazione delle motivazioni preventiva all’affidamento, per dar modo agli eventuali controinteressati di contestarle. L’alternativa, più dura, passerebbe dall’autorizzazione preventiva dell’Antitrust almeno per gli affidamenti più rilevanti. Ipotesi tentata in passato, ma archiviata in fretta.