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Società pubbliche, ecco i tetti ai compensi di Cda e revisori

Pronto il decreto del Mef che dopo sei anni attua la riforma Madia. Limiti divisi in 5 fasce a seconda delle dimensioni. Nelle società più piccole 120mila euro all’ad e 8-12mila euro ai controllori

di Gianni Trovati e Stefano Pozzoli

Al massimo 120mila euro lordi all’anno agli amministratori delegati delle società più piccole, che sono la maggioranza delle controllate pubbliche, 10mila euro ai consiglieri di amministrazione e 8mila ai componenti degli organi di controllo, con 5mila euro in più per il presidente. E poi limiti che crescono in altri quattro scalini con l’aumento delle dimensioni e della complessità delle società, fino alle più grandi dove gli ad possono arrivare al tetto dei 240mila euro, i membri dei consigli possono ricevere 23mila euro e i controllori 20mila (30mila il presidente).

I nuovi limiti ai compensi nelle società a controllo pubblico sono dettagliati nella bozza di decreto del ministero dell’Economia che sarà al centro la prossima settimana degli ultimi affinamenti tecnici prima dell’approdo in conferenza Unificata per l’intesa necessaria con gli enti territoriali. Ma quel che più importa è che il decreto, che il NT+ Enti locali & edilizia è in grado di anticipare, compare dopo sei anni di sonno. Perché attua una delle misure più controverse della riforma delle società pubbliche approvata nel 2016 dal governo Renzi con l’allora ministra per la Pa Marianna Madia: per mettere ordine al quadro all’epoca anarchico dei compensi societari, il governo congelò la situazione fissando l’obbligo di tagliare del 20% le remunerazioni riconosciute nel 2013, in attesa del riordino che secondo la norma sarebbe dovuto arrivare in tempi record. Invece non arrivò mai, bloccato dalle resistenze incrociate di un reticolo di interessi che si snoda fra migliaia di aziende e ha orecchie attente in tutti i partiti. Il risultato, paradossale, è un ancoraggio alla situazione del 2013 che premia chi allora spendeva di più, castiga chi spendeva meno e soprattutto si disinteressa delle evoluzioni che in dieci anni molte società hanno vissuto, in positivo o in negativo.

Il governo Draghi ha deciso di superare lo stallo, e dopo aver preparato il decreto per gli enti non societari (anticipato su Nt+ Enti locali & edilizia del 6 febbraio e ora in via di ultimazione dopo i rilievi del Consiglio di Stato) ora affronta il terreno decisamente più importante delle società.

Le regole in costruzione riguardano le decine di migliaia di incarichi sparsi nelle circa 3.200 società controllate dalle Pubbliche amministrazioni centrali e locali; fuori dal raggio d’azione dei limiti ai compensi rimangono ovviamente le poche quotate come Enel, Eni, Hera e così via, perché in quei casi la remunerazione risponde al mercato e non a un decreto ministeriale.

Per attuare il Testo unico del 2016, il decreto costruisce un quadro in cinque fasce, a cui corrispondono altrettanti limiti massimi ai compensi. A decidere la collocazione di ogni società in una delle fasce sono dimensioni e complessità dell’organizzazione, misurati in base a valore della produzione, totale dell’attivo e numero di dipendenti. Nella fascia più bassa, per esempio, gli organici contano meno di 100 persone, la produzione non arriva ai 30 milioni di euro all’anno e l’attivo si ferma sotto i 50 milioni. Nella più alta i dipendenti sono almeno mille, la produzione annua supera i 200 milioni e l’attivo il miliardo di euro. Per attestarsi in una fascia occorre superare almeno due dei tre parametri, con qualche bonus per i casi particolari come le società che svolgono la funzione di stazione appaltante qualificata o di centrale di committenza per le Pa o quelle che gestiscono importanti fondi di investimento alternativi. Qualche bonus in termini di assegnazione in fascia è previsto anche per le aziende che hanno avuto un patrimonio netto sopra i 100 milioni nella media degli ultimi tre anni.

Più dei limiti per i vertici aziendali, appaiono indirizzati ad avere effetti profondi i tetti pensati per i consiglieri e soprattutto per i collegi sindacali. In questo caso si oscilla fra gli 8mila e i 20mila euro, mentre per i presidenti si va da 12mila a 30mila euro lordi all’anno. Una forbice piuttosto stretta, al pari di quella che guiderà i compensi per i componenti dei consigli di amministrazione.

Come si diceva, però, gli effetti sui singoli casi dipendono dalle tante variabili individuali che sono rimaste fossilizzate dal blocco del 2013. L’entrata in vigore delle nuove regole, in questo senso, può prospettare buone notizie alle aziende che in questi dieci anni sono cresciute e potranno quindi provare ad adeguare i compensi alla loro nuova realtà. Il tutto dovrà poi essere illustrato in una relazione sulla remunerazione che le aziende dovranno mettere a disposizione dei soci pubblici.

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