Il CommentoPersonale

Una patente per rendere i concorsi pubblici più rapidi ed efficienti

La macchina della selezione soffre di un eccesso di candidature reso ppiù gravoro da un automatismo disordinato

di Gianni Trovati

Dove si trova la pietra filosofale capace di trasformare il carrozzone dei concorsi pubblici in un meccanismo efficiente, che riesca a selezionare i profili più adatti ai bisogni delle amministrazioni in tempi umani e non biblici? La si può cercare in un viaggio intorno al mondo, che parte dalle stanze della mitologica (non per il presidente francese Emmanuel Macron) École nationale d’administration di Parigi e poi guarda ai modelli anglosassoni della Civil Service Commission di Londra e dell’Office of Personnel Management di Washington. Ma con un certo stupore ci si può inciampare a Roma, in via Nazionale 91, a poco più di un chilometro in linea d’aria dal Palazzo della Funzione pubblica. Dove ha sede la Banca d’Italia, uno degli ultimi giacimenti di competenze della Pubblica amministrazione italiana (Mario Draghi a Daniele Franco sono solo i testimonial più illustri), che impiega in media fra i tre e i sei mesi per completare i propri concorsi e si allunga a un massimo di nove mesi per i bandi più larghi rivolti ai diplomati, quando le domande superano quota 30mila. Con risultati solitamente brillanti.

Lo stupore scema quando si scopre che in questo caso la distanza fra Roma e le altre Capitali è solo geografica, e che Bankitalia semplicemente applica gli ingredienti che danno sapore alle migliori ricette internazionali.

Per scoprirlo è utile la lettura di un dossier appena prodotto dall’Irpa, l’Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione fondato e presieduto da Sabino Cassese, che mette sotto esame le «buone pratiche» con cui le pubbliche amministrazioni provano a «reclutare le migliori competenze».

Il documento, recapitato nei giorni scorsi al ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta che ne avrà tratto qualche conforto per la riforma dei concorsi avviata con l’ultimo decreto Covid, promette di essere il primo di una serie dedicata al rilancio della Pa «tra velleità e pragmatismo». Le velleità sono quelle di tante riforme strategiche che fuori dalla Gazzetta Ufficiale si sono trasformate nel solito burocratico tran tran adempimentale (come la «programmazione dei fabbisogni», giusto per evocare il caso più evidente); il pragmatismo è ciò di cui c’è bisogno per stemperare un dibattito incline a gonfiarsi di ideologia quando si parla di concorsi. Le polemiche di questi giorni sulla valutazione dei titoli ne offrono esempi a piene mani.

Il confronto internazionale indica invece che la strada più promettente punta sull’adozione di strumenti che sono universali, e che possono essere adattati senza eccessivi sforzi di fantasia alle esigenze dell’amministrazione italiana. Come in tanti altri campi, anche nel reclutamento l’autonomismo disordinato che rappresenta ormai un tratto caratterizzante dell’identità amministrativa italiana, ha prodotto danni pesanti. Per superarli, la rassegna costruita dallo studio dell’Irpa offre un ventaglio di suggerimenti che si possono riassumere in un binomio solo apparentemente contraddittorio: serve più potere centrale, e più flessibilità.

La contraddizione apparente, è chiaro, si scioglie se il centro è in grado di offrire parametri certi e strumenti vincolanti per superare l’impasse attuale.

Dal centro deve arrivare una metodologia comune di rilevazione dei fabbisogni di personale, che per avere una consistenza reale devono però essere parametrati su obiettivi precisi e misurabili. E sempre al centro una struttura tecnica deve quantomeno fissare regole e standard comuni per i concorsi, se non anche addentrarsi nell’organizzazione delle singole selezioni. In ogni caso, e qui arriva un punto nodale anche per il dibattito di questi giorni, la struttura centrale dovrebbe giocare un ruolo strategico nell’alleggerire il peso delle candidature sotto il quale franano i tempi dei singoli concorsi.

Perché molte candidature sono «velleitarie se non temerarie», spiega il dossier, ma la loro presenza alimenta la montagna delle procedure. Altre sono ripetute, tentano la strada di più concorsi, e si trovano a dover ripetere prove spesso uguali. Due problemi che una preselezione centralizzata permetterebbe di archiviare. Un meccanismo del genere, mutatis mutandis, potrebbe infatti allargare il sistema che oggi nell’università è seguito con l’abilitazione nazionale: un patentino di accesso ai singoli concorsi, cher a quel punto potrebbero concentrarsi sulla scelta dei profili più adatti tra quelli che hanno superato le prime scremature.

Un attore pubblico centrale, poi, potrebbe entrare nel campo della formazione ai concorsi, oggi lasciata integralmente a un variegato mercato privato.

In un sistema come questo, e in particolare per le ricerche dei profili più qualificati, la selezione per titoli non sarebbe certo incoerente, e potrebbe essere affiancata da una «applicazione temporanea» al posto del periodo di prova. Perché il principio costituzionale del concorso pubblico è cruciale: ma non può diventare il feticcio per pietrificare un sistema come quello attuale che tra graduatorie, idoneità e ricorsi genera aspettative più che posti di lavoro.