Appalti

Servizio idrico, è già pubblico il 68,7% delle gestioni

Il Ddl Daga, così chiamato dal nome della prima firmataria, approderà nei prossimi giorni all’Aula della Camera. Da qui le sempre più frequenti prese di posizione di esponenti politici, di studiosi e di addetti ai lavori, come Adolfo Spaziani che su queste pagine mette in guarda da approcci ideologici (Il Sole 24 Ore del 2 febbraio). Sul punto arriva anche il Draft paper dell'Istituto Bruno Leoni che già dal titolo prende una posizione molto chiara: «L’acqua è già pubblica! Perché la proposta di legge sull’acqua fa male agli investimenti e all’ambiente».

Sintetizzando al massimo il ddl Daga presenta quattro elementi potenzialmente dirompenti: la ripubblicizzazione della gestione del servizio idrico, con l’esclusione dei privati entro il 2020; l’affidamento della gestione solo aziende speciali e non più a società, anche se in house; il trasferimento delle competenze sulle tariffe dall’Arera al ministero dell’Ambiente, e la definizione di ambiti di servizio commisurati a bacini idrici al massimo provinciali.

Iniziamo dal primo punto. È davvero necessario ripubblicizzare il servizio idrico in Italia? I ricercatori dell’Istituto Leoni, dati alla mano, sostengono che in realtà il settore è già dominato dal pubblico, e questo non solo in quanto lo è la risorsa idrica, demaniale, ma perché di fatto lo sono la stragrande maggioranza delle gestioni operanti nel Paese: ad oggi 41 milioni di italiani (il 68,7 per cento) sono serviti da gestori interamente pubblici, 17,6 milioni da società comunque controllate da soggetti pubblici e appena 1,1 milioni di cittadini (l’1,8% della popolazione) da operatori realmente privati. La ripubblicizzazione non è dunque, a tutta evidenza, una priorità. Si deve poi tener conto che rinunciare alle partecipazioni dei privati imporrà di indennizzarli, il che si traduce nel destinare spesa a questo anziché a investimenti.

La seconda scelta, quella della trasformazione delle società in aziende speciali, è forse la proposta più irragionevole, poiché nella migliore delle ipotesi rappresenta una modifica solo formale, e comporta solo oneri di trasformazione giuridica a fronte di nessun beneficio, anzi forse con qualche rischio in più sul piano gestionale e della bancabilità. Ci sono già operatori che hanno quella forma (antesignano è stato il Comune di Napoli con Abc) ma non c’è nessuna evidenza che questo migliori l’efficacia della gestione, dando per scontato che non ha certo effetti positivi sulla sua efficienza.

Il trasferimento delle competenze sulla tariffa al ministero non solo è in contraddizione con la recente scelta di attribuire ad Arera anche la materia dei rifiuti, ma comporta la possibilità di “politicizzare” le decisioni in materia tariffaria, di abbandonare il principio del full cost recovery, e quindi porta in sé il rischio di disincentivare gli investimenti, oggi quanto mai necessari per migliorare la qualità del servizio e ridurre la dispersione dell’acqua.

Ridurre la dimensione dei bacini, infine, significa in molti casi aumentare il numero di aziende pubbliche che si troveranno a gestire il servizio, bloccando la razionalizzazione tanto faticosamente avviata. Anche questa è una scelta antieconomica, preludio di una gestione non industriale del servizio, che con ogni probabilità si tradurrà in minore efficienza. Tutti elementi che rischiano di fare tornare il Paese in una situazione antecedente alla Legge Galli e quindi a vanificare un percorso di razionalizzazione avviato 25 anni fa e ancora incompleto.

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