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Derivati, la Cassazione riapre il caso - A giudizio gli ex vertici del Tesoro

Coinvolti Cannata, La Via, Siniscalco e Grilli. Esce di scena Morgan Stanle

di Gianni Trovati

Torna in Corte dei conti la maxi-accusa per danno erariale rivolta agli ex vertici del Tesoro per i sei derivati di Stato chiusi nel 2011-2012. Ma esce definitivamente di scena Morgan Stanley, che non può essere sottoposta al giudizio dei magistrati contabili. Dei 3,9 miliardi di danno contestati dalla Procura, cifra record nella storia dei processi contabili, i 2,67 attribuiti alla banca d’affari diventano quindi anche teoricamente “irrecuperabili”: tornano invece sotto esame i 982,5 milioni contestati a Maria Cannata, ex dg del Debito pubblico, e le cifre relative agli ex direttori generali del Tesoro Vincenzo La Via (poco meno di 96 milioni), Domenico Siniscalco (84,7) e Vittorio Grilli (20). A riaprire la vicenda sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 2157/2021 depositata ieri. Decisione che ribalta le scelte assunte in due gradi di giudizio dalla stessa Corte dei conti, che aveva stabilito di non poter procedere a un’accusa rivolta a una strategia di gestione giudicata «perfettamente legittima e sempre approvata dai vertici governativi» (così la sentenza 50/2019 della prima sezione centrale d’appello). Ma lo stop all’accusa «per difetto di giurisdizione» e non nel merito ha aperto la strada al ricorso della procura contabile alla Cassazione, che si è pronunciata appunto ieri.

La storia è complessa sia sul piano economico sia su quello giuridico. Nella ricostruzione dell’accusa, a danneggiare le casse dello Stato sarebbero state le clausole di estinzione anticipata scattate tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, mentre lo spread infiammava i titoli di Stato italiani, grazie a un contratto sbilanciato a favore della banca che in questo modo avrebbe avuto nei fatti poteri decisionali sulla gestione del debito.

Queste clausole produssero una spesa da 3,1 miliardi, finanziata con nuovi titoli che con i loro interessi hanno fatto salire il danno a quota 3,9 miliardi.

In primo grado e in appello i giudici contabili avevano respinto questa tesi. Perché i 3,1 miliardi sono stati effettivamente spesi, e i titoli di Stato per finanziarli sono stati emessi. Ma il tutto, sostenevano i giudici d’appello, era accaduto all’interno di una strategia di gestione decisa a livello governativo, e attuata a livello amministrativo dalla prima linea del Tesoro con le sue «professionalità di altissimo rilievo nazionale e internazionale» e le «procedure assai complesse» che prevedono «un’analisi assai rigorosa» dei contratti con le banche.

La scommessa sui tassi era stata persa quindi per gli effetti di una crisi del debito pubblico imprevedibile nelle sue dimensioni, e non per scelte «irragionevoli, incongrue, illogiche o irrazionali» che animano il dolo o la colpa grave, uniche cause possibili di danno erariale. Su queste premesse la Corte aveva stabilito la propria impossibilità di decidere, con una scelta che la Cassazione contesta.

Perché l’insindacabilità delle scelte governative non è in discussione, spiega la Suprema Corte, ma le «modalità operative» possono finire sul tavolo dei magistrati contabili per capire se c’è stata «mala gestio»: da valutare ovviamente sul piano della «legittimità» e non dell’«opportunità». Una valutazione che in realtà sembra già presente nelle prime due sentenze, che però erano sfociate in un «difetto di giurisdizione». Ora la Corte dei conti dovrà rimettere alle carte, a meno di non voler interpellare la Consulta sulla (mancata) competenza contestata. Ma non per Morgan Stanley che, nonostante le clausole, per la Cassazione non ha intrecciato con il Tesoro «una relazione di servizio comportante l’assunzione di potestà pubblicistiche».

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